Un bel giorno mia madre, di punto in bianco, decise che servivano dei materassi nuovi e quindi mandò a chiamare la materassaia.

   Era una donna molto vecchia, però ancora abile. Arrivò di primo mattino, con i suoi attrezzi avvolti in un fagotto annodato: un assortimento di forbici da sarto, lunghi aghi dalla punta smussata, simili a ferri da calza, un gomitolo di spago.

   Gli fu assegnato uno spazio, appartato dal via vai della famiglia, dove la vecchia avrebbe dovuto compiere la sua missione. La sistemazione era improvvisata e alla buona, ma la vecchia sembrava soddisfatta.

   Era taciturna, e questo la emarginava da noi bambini che gli volteggiavamo attorno. Insomma, lavorava in silenzio, in un pulviscolo di fibre di lana, e con una dedizione che non mi era mai capitato di osservare. Accosciata a fianco di un mucchio di fiocchi di lana, li cardava con le dita rapide e poi li ficcava nel saccone, tenuto aperto con la mano sinistra mentre con la destra lo imbottiva. Ogni tanto metteva all’opera un lungo ago, con la punta ricurva, con la quale trapassava il saccone da parte a parte per pigiare ben bene la lana.

   Lavorava senza fatica apparente, e ogni paio d’ore si riposava per qualche minuto, ma sempre mantenendosi appartata e solitaria. Sgranchiva le gambe tenute ripiegate per troppo tempo. Il suo corpo magro, ma forte, era disciplinato nel riposo come nel lavoro.

   Sulle prime non gli prestai attenzione, ma poi, forse incuriosito dal lungo silenzio, mi venne forte il desiderio di avvicinarmi a lei. Mi guardò e mi rivolse un sorriso sdentato. Sussurrò alcune parole che a me giunsero come un grugnito ovattato, incomprensibile.

   Come avrebbe fatto qualsiasi bambino, cominciai a porle una filastrocca di domande e, dalle sue brevi risposte, appresi che faceva quel lavoro da quando aveva quattordici anni e che vitto e alloggio, improvvisati e alla buona com’erano rientravano nel calcolo della paga e, ne sono convinto, ne costituivano la massima parte. Per farla breve, quella vecchia non teneva una casa dove tornare, e il suo giaciglio, visto che lavorava i materassi, era presto fatto.

   Non sembrava infastidita dalle mie domande, però mi rispondeva come se la realtà che viveva non le importasse per niente.  Mi resi conto che quella vecchia viveva la vita e la dimenticava subito. La vita e il mondo, per così dire, gli entravano da un occhio e gli uscivano dall’altro, senza lasciare la benché minima traccia. Il passato lo cancellava nel momento in cui viveva il presente e se ne andava leggera, come un funambolo, lungo il crinale della vita.

   -Ti sembra strano che io oltre a questo lavoro non faccia nient’altro?- mi disse. -Ma non è proprio cosi, sai? Mentre lavoro penso, penso assai. Addirittura invento favole-.

-Favole? E a cosa ti servono le favole, vecchia come sei?-

-A me niente, ma a quelli come te servono molto, perché ai bambini bisogna lasciare i sogni, tanti sogni, tutti quelli possibili, affinché crescano e divengano vecchi come me senza appassire dentro.-

   Rimasi esitante e la vecchia per un po’ non disse niente, e neppure io.

   A un certo punto, però, mi disse: -Caro, lascia che ti racconti una favola. Dunque, vediamo…

   Si racconta che, tanto ma tanto tempo fa, un pontefice obbligò i fedeli a pagare una tassa sui peccati. Egli nientemeno redasse un editto, in cui erano elencate le somme da pagare per avere l’assoluzione dai peccati. Il pagamento era tanto più oneroso secondo la gravità delle colpe.

   Qualcuno afferma che il Papa, alla sua morte, lasciò un autentico tesoro in fiorini d’oro e gioielli. Quel tesoro era il frutto della cattiveria degli uomini che, senza dubbio, doveva essere troppa.

   Si narra, infatti, questo episodio.

   Un ragazzino monello e impertinente aveva il malvezzo di pronunciare e ripetere una frase volgare a ogni aprir di bocca: “Vai a farti …”. Per questo perdette anche il posto di giovane di bottega presso un venditore di stoffe, poi il posto di aiutante presso un forno, e così via. La madre ne era afflittissima!

   La poveretta, però, ebbe un’idea luminosa. Siccome, madre e figlio erano molto religiosi, ascoltavano la messa e si confessavano tutte le settimane, la madre ricorse al confessore, e questi, senza indugio, ricorse alla tassa.

   Il prete sapeva che il piccolo sfacciato si tratteneva, dalla paga settimanale, un po’ di denaro per i divertimenti della domenica. Lo ammonì, durante la confessione, e gli impose la tassa di un soldo per ogni volta che quella sua frase gli fosse uscita dalle labbra.

   Fu un autentico disastro per il borsellino del moccioso, che doveva confessarsi ogni domenica e, quindi, non poteva sfuggire a quell’imposizione. La prima settimana furono ventisei soldi, la seconda trentaquattro, e il confessore ogni volta si fregava le mani contento.

   La terza volta, che venne dopo giorni molto turbolenti e litigiosi durante i quali il ribelle aveva mandato a quel paese parecchie persone, furono nientemeno sessantadue soldi.

   Il ragazzo consegnò un fiorino al confessore, il quale però non aveva spiccioli per di resto.

   Come faremo? esclamò.

   Il monello tacque un istante, poi di scatto:

   Padre, disse al sacerdote, andate a farvi … anche voi, e tenetevi l’intero fiorino!-

   La vecchia mi osservò in silenzio e si accorse della mia perplessità. Così riprese: -Vedi, caro ragazzo, la gente umile e ignorante, narrò per tanti anni questa storia, forse frutto della sola immaginazione del popolo, perché voleva dire che le imposizioni fatte per legge, spesso non servono per imporre i principi morali agli uomini. Infatti, quel ragazzo, anche a prezzo di un grande sacrificio, aveva scelto di rimanere libero e non diventare schiavo.

   Può darsi che i principi morali si possano sostenere meglio con l’amore, con l’esempio, e mai con la forza.-

 

 

 

Annotazione:

 

Il Papa di cui si parla fu Giovanni XXII: 196º Papa della Chiesa cattolica dal 7 agosto 1316 fino alla morte. La sua amministrazione fu caratterizzata più che altro da politiche economiche, tanto che gli fu attribuito l'appellativo di "Papa banchiere"; infatti egli aveva ereditato una situazione finanziaria della Santa Sede piuttosto malconcia, a causa della trascuratezza della gestione del suo predecessore. Redasse e applicò il documento “Tasse della cancelleria apostolica e della sacra penitenzieria”. Il testo venne successivamente rielaborato, durante il pontificato di papa Leone X, per adeguare la tassa sul peccato al valore corrente della moneta.

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