“Ioana!”

È l’ultima parola che sente uscire dal cellulare. Infila lo smartphone in tasca.

«Buna, mama», dice, anche se la madre non può più sentirla.

“Ciao, mamma”, pensa fra sé in italiano, come ormai le capita spesso di fare da quando è in Italia: da una vita, ormai.

Si avvicina al tabellone delle partenze, conosce a memoria l’orario del solito treno, ma l’immancabile ansia la spinge a controllare ogni volta. Ogni venerdì.

Roma l’aspetta, nella sua magnificenza. Dovrà attraversare piazza di Spagna prima di addentrarsi nel vicolo buio che la porterà a casa sua, rivedrà il portone scrostato e il battente di bronzo, le aprirà la porta Maria, sua madre.

Ceneranno parlando la loro lingua, sua madre le chiederà se le hanno dato la paga, e le parlerà di suo fratello Vasile che ha bisogno di soldi. Adesso poi, che Elena è incinta del quarto, se non ci fosse Ioana non saprebbero più come fare. La terra è buona, ma ormai si guadagna poco.

Lei conterà le rughe sul viso di Maria, guarderà le sue borse violacee sotto gli occhi stanchi, si soffermerà sulla sua bocca sdentata e verrà sopraffatta dalla stanchezza. 

 

Il tabellone conferma l’orario: 18:50, come sempre.

Ioana ha ancora il tempo di prendere un tè, ha bisogno di scaldarsi, anche se oggi, a Mestre, non fa molto freddo.

Trascina il trolley all’interno del bar, si siede vicino alla vetrata e aspetta.

La biglietteria è più affollata del solito e molte persone stazionano davanti al tabellone degli orari, impedendole la vista, è costretta ad allungare il collo, ogni tanto, e l’orario, per fortuna, non cambia.

Legge “Trieste, ore 18:45”, appena una riga sopra, e si ritrova a immaginare quella maestosa città distesa tra i monti e il mare, dove si sarebbe trasferita se le cose fossero andate diversamente con Dimitru.

Poi, invece, non è nemmeno riuscita a visitarla: troppi impegni, troppi treni da prendere per venire e per tornare.

Le piacerebbe salire su quel treno e, per una volta, trasgredire alle abitudini, tuffarsi nell’ignoto, spendere la paga settimanale per una piccola pensione, un panino per cena e finalmente vedere “Piazza Unità” illuminata dai lampioni, e camminare sul molo ventoso guardando il mare scuro del golfo.

Il sabato potrebbe fare shopping in viale XX Settembre e poi tornare nella piazza per la colazione al “Caffè degli specchi”, seduta all’interno, per poter ammirare i lampadari di cristallo.

Con Dimitru aveva spesso immaginato la loro vita a Trieste, avevano guardato le cartoline spedite da Andrei, seduti davanti al camino, a Bistrita, con la zuppa fumante tra le mani. Erano giovani, belli. I corpi tonici per il lavoro nei campi, i visi abbronzati anche d’inverno.

«Ancora un anno», le aveva detto lui, « Andrei dice che forse quel lavoro me lo danno.»

Ioana non aveva risposto, lo aveva abbracciato e si erano baciati.

 

Esce dal caffè e si apposta anche lei davanti al tabellone, tra persone che vanno di fretta, qualcuno che la spinge, si aggrappa alla maniglia del trolley.

Le fanno male i piedi, sarebbe stato meglio se fosse rimasta un altro po’ seduta dentro al bar, anche se gli stivaletti non hanno il tacco troppo alto. Non vede l’ora di essere sul treno per abbassare le cerniere sulle caviglie e massaggiarsi i polpacci indolenziti.

Oggi ha camminato parecchio perché la signora ha voluto il pesce fresco e la pescheria è a due chilometri da casa, e poi ha dovuto riassettare la camera di Giovanni che al venerdì torna dall’università; lunedì dovrà lavare e stirare gli indumenti che il ragazzo porta da Bologna. Non le dispiace tutto questo: i signori sono gentili e, qualche volta, le danno dei soldi in più e le fanno anche dei regali. In fondo, pensa Ioana, è come se la casa fosse un po’ anche sua, ed è molto meglio di dover occuparsi di qualche vecchio incontinente, come Ana, che era partita con lei e poi però si era trasferita a Padova, lasciandola sola.

Ormai è abituata a Mestre, alle auto che non si fermano neanche quando attraversa sulle pedonali, e al caos che riempie le strade ad ogni ora del giorno. I primi tempi le facevano male gli occhi, erano abituati alla calma della campagna, le sembrava di subire un eccesso di immagini, e li doveva chiudere. Ora non ci fa più caso.

 

Sua madre l’aspetta a Roma e lei sta pensando a Dimitru.

«Non ti amo più», le aveva detto quel giorno, e le era sembrato che il paesaggio intorno avesse provato un fremito.

Gliel’aveva detto come se non fosse stato un uragano che le avrebbe distrutto il cuore.

Poi aveva appoggiato la schiena sulla balla di fieno e le aveva fatto un cenno per invitarla a sedersi accanto a lui.

Lei, invece, aveva girato le spalle e aveva cominciato a correre sollevando polvere e sassi di cui le sembrava di avere  la bocca piena.

Dimitru non l’aveva più rivisto, era partito per l’Italia poco tempo dopo.

Le manca ancora il fiato, quando ripensa alla scena, e ancora non sa spiegare perché l’amore sia finito così, non il suo, certo, quello di Dimitru. Ogni volta che ci pensa l’immagine è sempre la stessa di loro due, alla festa del paese, che ballano “Frumoasa mea”: lei gli tocca i capelli sulla nuca mentre appoggia la testa sulla spalla, con la guancia contro la pelle del suo collo ruvido e canta “Vorrei che fossimo solo noi due sulla Terra. Amarci nel mare”.

 

La voce metallica dell’altoparlante invita a salire sul treno per Trieste delle 18:45, che è in partenza dal binario 2.

Ioana ha l’impressione di avere i piedi incollati a terra, per un attimo le tremano le ginocchia e le mani stringono i pugni nelle tasche del giubbotto.

Poi corre trascinando il trolley, mentre la farfalla di strass, che trattiene la sua coda bionda, brilla alla luce dei neon.

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