Naturalmente gli unici che avevano qualche probabilità di farcela eravamo io e Lorenzo, perché eravamo gli unici maschi, anche considerando Lorenza che era una specie di maschietto sotto le sembianze di una femmina.

“Ci scambieremo le parti una volta alla casa, non voglio che rischi solo tu”, affermò Enrico e lì per lì mi parve sincero.

Al mattino ci ritrovammo alla capanna, attraversammo il campo e ci ritrovammo davanti alla casa. 

“Devo tenere il fortino” proclamò Enrico appena appoggiai la scala al muro. Con quelle parole voleva dire che in pratica rimaneva di guardia e sulla scala dovevo salire io.

“Va bene”, dissi e lo guardai come a dire che i patti che avevamo fatti erano diversi, e sentii montare una certa rabbia ma ancora controllabile, almeno per il momento. Salii i primi gradini quando per poco non persi l’equilibrio e caddi all'indietro: un grosso topo aveva fatto capolino e dopo aver percorso un piolo era sparito tra il folto della vegetazione. 

“Aiuto!” esclamò Sonia.

“Che schifo!” disse Enrico, ma io non mi scomposi più di tanto, con un calcio spalancai la finestra e con un balzo entrai nella stanza.

Trovai altri compagni del topo che mi aspettavano e che appena mi videro si diedero alla fuga verso gli angoli oscuri della stanza. A tentoni e con la mano tastai le pareti della stanza e riuscii ad aprire altre due finestre cosicché tutta la stanza si illuminò.

L’ambiente era senza mobili, completamente spoglio. Mi affacciai dalla finestra e feci salire Enrico. Sonia e mia sorella aspettarono fuori, erano troppo spaventate. Aprimmo la porta della stanza e scendemmo la scala che collega il primo piano al piano terra: la casa era costituita solo da due grandi ambienti, identici. Scendendo dalla scala aprii un'altra porta che aveva degli strani simboli sullo stipite superiore: un teschio con due tibie sotto, in rilievo. 

“Ecco forse questo è lo studio del dottor Frankestein!” esclamai. 

Ormai ero deciso ad andare fino in fondo alla storia anche perché volevo capire se la storia del dottore aveva qualche fondamento di verità o era tutta una leggenda come sembrava e certo quel simbolo di morte non mi avrebbe fatto desistere.

Diedi una spallata alla porta che cedette con uno schianto ed entrai. C'era un buio spesso e fondo, e l’apertura della porta aveva creato una lama di luce che illuminò debolmente un tavolo su cui erano delle specie di alambicchi e delle ampolle. 

Erano quelli gli strumenti del folle dottore? 

O erano piuttosto erano quelli di un hobbista che si dilettava di esperimenti di chimica?

Aprii le altre finestre e illuminava la stanza completamente rivelando il contenuto celato da anni cioè non da decenni: al centro campeggiava un tavolo su cui avevo visto quei contenitori di vetro impolverati. Sulla destra appoggiato al muro c'era una vasca con un rubinetto e di fianco un armadio con un'anta semiaperta. Dall'altra parte della stanza c'era quella che pareva a tutti gli effetti la scrivania del dottore.

“Ecco la scrivania!”, esclamò Enrico.

E fu proprio in quel momento che sentimmo come un tramestio, un movimento come di mille tentacoli che si fossero come risvegliati, dopo un tempo incommensurabile, al suono della mia voce.

Era là dentro, in quell’armadio, il dottore… o quello che ne restava. 

Quel suono cupo ma fatto di tanti singoli rumori proveniva senza dubbio dall'armadio.

“Bene soldato apri l’armadio!”, era proprio un ordine quello che aveva pronunciato Enrico o avevo capito male.

Anche gli altri lo guardarono in modo strano, non aveva mai dato un ordine così perentorio e che non ammetteva repliche.

“Scusa non ho capito… puoi ripetere?”, chiesi.

“Hai capito bene, apri quell’armadio e basta”, ripetè.

La rabbia ora era montata in me e non aspettava che trovare un pretesto per esplodere, ne avevo avuto abbastanza di lui e del suo atteggiamento da capetto e mi venne un’idea.

“Senti mi hai stufato… chi avrà il coraggio di aprire l’armadio sarà il nuovo capo… che ne dite?”, mi rivolgevo agli altri che sapevo erano stanche come me del suo atteggiamento.

“Senti ragazzino non ho tempo per queste cose e ho voglia di tornare a casa… e quindi finisci le tue chiacchiere da ragazzina e apri quell’anta”, intanto guardò gli altri e capì che si trovava in netta minoranza, solo Lorenza ci sarebbe stata dalla sua parte… ma forse neppure più di tanto.

Intanto provenivano altri rumori dall’armadio che ora si erano trasformati in una specie di sibilare, come delle unghie su di una lavagna.

In quella situazione non c’erano palloni da far rimbalzare, o elicotteri salvifici.

“Va bene, bamboccio… lo hai voluto tu”, si avvicinò e tese una mano ma proprio in quel momento era cessato ogni rumore e la stanza piombò in un silenzio profondo si sentivano solo il battito delle ali di qualche uccello fuori.

Vedevo le gocce di sudore che stavano colando dalla fronte di Enrico, poi ci fu uno schianto come qualcosa si fosse spezzato.

Enrico cacciò un urlo e si ritrasse dietro addirittura facendosi scudo con Sonia. Ormai si era rivelato per quello che era, non ci avrebbe più comandato a bacchetta.

Presi il coraggio a due mani e aprii del tutto l'anta semiaperta che non fece in tempo ad aprirsi completamente che una massa indistinta di occhi e di musetti annusarono l'aria e come un'onda in piena si riversarono fuori dal mobile nella stanza che, quasi mi travolse. Erano topi per un momento avevano assunto le fattezze di un organismo unico e compatto ma che subito dopo si era rifranti in mille rivoli, in mille organismi pullulanti. 

Dunque, era quell'ammasso di carne che sgattaiolava qua e là sul pavimento, ciò che rimaneva del folle dottore?

Feci una risata che riempì di echi la casa e mi volsi verso Enrico.

Ero il nuovo capo.

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