Finalmente la naia era finita. Dopo le solite promesse di incontrarci al di fuori di quelle mura, con i miei commilitoni stavo salendo su un fumoso treno per tornare a casa. Era il sedici settembre, un martedì che stava per finire in un tramonto di fuoco. La Cecchignola il luogo dove avevo trascorso gli ultimi mesi, adesso e solo adesso, si presentava come un magnifico posto. Alberi fitti sempreverdi coprivano le palazzine dove migliaia di ragazzi erano lì in attesa di poter esprimere la loro vitalità, la loro passione per la vita. Il tramonto stava colorando di rosso ogni muro, ogni finestra, ogni albero che circondava il territorio. Mi stavo allontanando da quel mondo che mi aveva trasformato da un ingenuo contadino in un qualcosa che ancora non riuscivo a capire. Ero sempre io, con la stessa propensione allo stupore per ogni evento nuovo che entrava nella mia vita, eppure sentivo in me qualcosa di diverso, una sensazione di acquisita conoscenza della vita. Ero adesso, alla immensa stazione Termini di Roma, con una piccola valigia al seguito. Con niente ero arrivato e con niente ritornavo. Non avevo nulla da portare indietro se non un anno e mezzo di esperienza e consapevolezza che il destino aveva voluto riservarmi. Con uno sbuffo rumoroso il treno si mise in moto e devo confessare che nonostante tutto, mi voltai indietro un’ultima volta per salutare mentalmente quei luoghi e quella città. Tornavo al mio paesello, alla mia vita di sempre, anche se ora tutto mi sembrava inadeguato. Pregustavo il mio incontro con la donna che pazientemente aveva atteso il mio ritorno. Sapevo che lei era in ansia come e forse più di me. Potevo solo immaginare cosa avesse in mente per quel nostro riabbracciarci, questa volta per sempre e non per i soliti tre giorni. Qui mi vennero in mente i versi di una delle tante canzoni che si cantavano come tradizione durante la naia.

“Amore mio non piangere

se sono ritornato

non sono più in licenza

ma per sempre congedato!”

Mi addormentai subito un po’ per l’emozione di sentirmi libero e anche per cercare di calmare la frenesia e le fantasticherie su quello che avrei fatto.

La voce del capotreno mi svegliò per avvisarmi che eravamo prossimi alla mia destinazione. Mi preparai in un attimo, la mattina avevo fatto una doccia e la barba, ero pronto. Affacciato al finestrino guardai il treno che si fermava sul binario due quello che proveniva da nord. Erano solo due, uno da sud e uno da nord, fermate veloci e via.

Al momento aguzzando la vista per guardarmi intorno, per quanto mi sforzassi non vidi Rosetta. Fui lesto a scendere, il treno sarebbe partito subito e non volevo certo proseguire. Lungo il breve marciapiede non c’era nessuno, possibile! mi chiesi, speravo che sarebbe venuta a prendermi e invece… ah! le donne, uscii fuori molto contrariato, ma appena fuori vidi proprio davanti all’ingresso un calesse con mio padre in cassetta e lei, la mia Rosetta, al suo fianco. Feci un balzo per salire sulla carrozza che per poco non mi ruppi una gamba.

Dopo alcuni minuti di effusioni sotto l’occhio torvo di mio padre partimmo per casa che era lontana tre chilometri. Una distanza che spesso percorrevo a piedi per recarmi a vedere i treni, le persone che arrivavano erano sempre più di quelle che partivano. Nonostante il paese avesse un’impronta contadina, il flusso di gente che veniva da noi era abbastanza consistente, prima non capivo il motivo di questo interesse. Adesso mentre tornavamo a casa mi guardavo intorno e convenni che il panorama era gradevole e non solo. La gente di città veniva per l’aria buona e per rifornirsi di prodotti freschi della terra, economici e di buona qualità. Nello zaino ero riuscito a conservare, per i fratelli più piccoli, molte barrette di cioccolato, quelle della razione K. Erano buone e loro sarebbero stati felici di questa opportunità di avere cose dolci sempre desiderate e mai ottenute. Il ritorno a casa del figlio maggiore, come era prevedibile, doveva essere festeggiato, tuttavia, mia madre non smise di piangere per ore. Ai festeggiamenti si unirono tutti i parenti e amici che, secondo le loro dichiarazioni, avevano sofferto la mia mancanza. Ovviamente tacendo sull’opportunità di scroccare un buon pranzo. A fine festa e calmata la situazione, mi diressi sottobraccio con Rosetta fuori il patio dove potemmo appartarci e restare a guardare le stelle che fra poco sarebbero comparse in quella parte di cielo che copriva il mio piccolo mondo. Mia sorella, dopo un po’ venne in silenzio e, sorridendo maliziosamente, portò due calici di vino novello. Il primo assaggio di un mosto non ancora vino. In quei giorni erano impegnati nella vendemmia delle uve precoci. Restammo ancora a parlare, io e Rosetta, stavamo decidendo del nostro futuro, di cosa avrei fatto adesso dopo quella lunga parentesi, continuare nel lavoro dei campi o mettere a frutto quel poco di conoscenza acquisita durante il servizio militare cercando un altro tipo di lavoro, magari nell’industria. Stavamo valutando le varie soluzioni, ma dovemmo interrompere per ritirarci in casa. L’aria era diventata frizzante e Rosetta accusava brividi di freddo. La festa era finita, tutti erano impegnati e dovevano riposare. La casa era vuota così potemmo metterci vicino al camino a bere quel vinello frizzantino dal sottile aroma di ciliegia consapevoli che avremmo continuato a bere quel vino ancora per molto tempo, forse per tutta la vita. Si parlava di un futuro diverso, ma nei nostri cuori già sapevamo che niente ci avrebbe distolto o allontanato da quel mondo, dove la vita scorre con ritmi antichi e conserva nella sua semplicità, nella natura che lo circonda, la felicità.

 

 

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