La lunga striscia d’asfalto che stavo percorrendo, aveva appena salutato l’area metropolitana con le sue guglie di cristallo e le sue torri a scandire ritmi e tempi del prepotente e recente sviluppo urbanistico della città.

L’incombente presenza del cemento era, solo in parte, ingentilita dai numerosi parchi cittadini, involontari testimoni del metodico saccheggio perpetrato ai danni del territorio circostante e ipocritamente destinati alla tutela dei rari spazi naturali scampati alla modernità.

Il panorama era completato dal profilo elegante dei tanti ponti che, in quella frenetica orgia quotidiana, davano il senso di unicità e nel contempo di identità alle varie isole dell’arcipelago.

Un filo indispensabile a trasformare le singole perle in un’affascinante, misteriosa ed attraente collana.

 

Diretto a nord, lo sguardo verso l’oceano, la sensazione di oppressione mutò in un sentimento di inaspettata armonia. Il traffico lasciato alle spalle, il silenzio a riprendersi la scena, rotto con cadenze ritmate dal frastuono delle onde a spumeggiare le due lingue di sabbia, uniche difese di quel promontorio, verso l’interno della baia e verso il mare aperto.

 

La Sunrise Highway risalì rapidamente la penisola di Long Island, fino a raggiungere l’estrema propaggine settentrionale di quel braccio di terra.

 

Raggiunsi la minuscola cittadina di East Hampton e, dopo una breve sosta per un improbabile caffè locale, mi diressi, seguendo le coordinate fornitemi, verso la destinazione finale. La Old Stone Highway mi regalò uno splendido affaccio sulla baia. Alla mia destra, in lontananza, intravidi quella che, dalle rapide e un po’ scontrose descrizioni ottenute dagli abitanti locali, sembrava essere la casa dell’artista.

 

Un semplice ma elegante cottage all’interno di un parco che ospitava e proteggeva le poche abitazioni digradando verso il lungo e quasi inviolato arenile. Un piano terra, che mi sembrò appena restaurato, con belle travi di legno orizzontali e verniciato di un bianco luminoso. Una piccola rampa di accesso agli ambienti interni. Il piano superiore realizzato in mattoncini rossi, in parte bruniti dall’umidità, a dare colore e carattere all’immobile.  Il tutto sormontato da un ancor più scuro tetto spiovente, a rendere armonico il risultato finale. A pochi metri, nel parco antistante un’altra costruzione, più semplice a completare la proprietà.

 

Pensai, in un primo momento, si trattasse di un deposito o forse di un garage….

 

Ad accogliermi, nel giardino di casa, una signora dall’aspetto minuto che, con estrema gentilezza, mi invitò al tavolo, accuratamente imbandito per una ricca colazione. Mi disse di chiamarsi Lee, di essere la moglie dell’artista e che presto lo avrei potuto incontrare nel suo atelier. 

 

Scoprii così, che quello che immaginavo essere un deposito era, in realtà, lo studio di Jack, questo era il nome dell’artista.  Uno spazioso capannone rettangolare, tetto spiovente e imponenti finestroni ad illuminare l’unico ambiente e a fornire una visione privilegiata e continua sulla natura incombente. Due grandi tavole sorrette da cavalletti erano state elette a “studio” del pittore. A completare ed integrare la luminosità dell’ambiente, alcune lampade al neon poste sulla parte più alta del soffitto.  Alle pareti piccole tele incomplete, vecchie foto e qualche sgualcito poster ad evocare il ricordo di mostre precedenti.

 

Ma solo abbassando lo sguardo verso terra, ebbi la percezione di essere stato catapultato in un mondo magico. Decine, forse centinaia di piccoli e grandi barattoli di smalti e vernici multicolori, facevano bella mostra di sé in un apparente disordine. Piccole latte di alluminio contenenti pennelli di ogni tipo, scatole e matite, a completare il corredo professionale. Dovunque, tracce di colore, schizzi di smalti e gocciolature di vernici a trasformare il pavimento in un’incredibile tavolozza. Il legno calpestato e consumato si era trasformato in una grande opera d’arte, il palcoscenico perfetto per la quotidiana rappresentazione del genio. I penetranti odori chimici, gli acidi, le luci invadenti dall’alto, avevano reso quello studio una sorta di laboratorio misterioso, dove qualche scienziato folle avrebbe sperimentato le sue ultime scoperte al riparo dagli sguardi insolenti o indifferenti dell’umanità.

 

In un angolo, seminascosto dalla penombra, intravidi Jack. Si voltò verso di noi e solo un leggero cenno della testa, testimoniò la sua infastidita accoglienza. Davanti a me, un uomo dalla fisicità imponente. Non particolarmente alto e quasi completamente stempiato, indossava una vecchia e lisa maglietta di cotone nero ed un altrettanto logoro paio di jeans. Sembrava avessi di fronte un vecchio e solitario avventuriero del Far West. Tra le dita, una sigaretta già piuttosto consumata che avrebbe fatto presto compagnia ad altre, smozzicate e gettate in terra a far da improbabile tappeto.

 

Mi fu chiesto, dalla signora Lee, di rimanere in silenzio in attesa che il marito iniziasse a dipingere…

 

La grande tela era stata tesa al centro dello stanzone. Fissata con alcune punte metalliche a pavimento, misurava, dal mio punto di osservazione, almeno cinque metri di lunghezza e tre di altezza.

 

In un’atmosfera che mi apparve irreale, Jack si avvicinò alla superficie bianca con una spatola e un barattolo di smalto nero dai riflessi metallici.  Tenendo la sua sigaretta tra le dita, prese forma una strana danza, fatta di movimenti lenti e quasi ritualizzati, in cerca di una scintilla che scatenasse la sua ispirazione.

 

Si piegò sulla tela e, dopo aver intinto con misteriosa cura la spatola, la indirizzò verso di essa, producendo una pioggia di gocce che si depositò, senza apparente ordine, sulla bianca superficie.

 

Un’eruzione di energia si sprigionò da quel bizzarro balletto. Forme inaspettate prendevano possesso di quel quadro. Il braccio come estensione della mente in un flusso ininterrotto di sollecitazioni emotive.

 

Il movimento non era più solamente il mezzo, ma il fine ultimo di quella straordinaria rappresentazione. Mente e corpo a disposizione del genio.

 

Fui sconvolto dalla rapidità con la quale fu portato a termine il lavoro. Nulla venne lasciato alla casualità, anche se tutto appariva casuale.

 

Ogni combinazione di forme e colori, ogni alterazione della superficie, ogni goccia versata, erano la testimonianza di una rottura degli equilibri circostanti. Una frattura dell’ordine precostituito, ricercata ed ottenuta. Una ribellione alle regole convenzionali e alle forme espressive tradizionali.

 

Jack impiegò qualche attimo a ricollocarsi mentalmente nella realtà.  Spense l’ennesima sigaretta, ci guardò compiaciuto e accennò un timido sorriso.

 

“You are number one”, ebbi la forza di dire, ancora estasiato dalla performance.

 

“Thanks”, mi rispose seccamente, alzò la mano ancora imbrattata in segno di saluto e, velocemente, scomparve alla mia vista.

 

East Hampton (New York) 1950

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