La metropolitana rallentò fino a fermarsi e mi accodai ai pendolari per salire. Entrando nella carrozza vidi che i sedili a due posti erano ancora liberi. Scivolai tra la gente con prepotenza e li occupai. Sfilai la tracolla e il cappotto e li posai sul sedile accanto al mio. Poi distesi le gambe. Mi aspettavano trenta minuti di viaggio dato che dovevo andare a lezione e la mia facoltà si trovava dall’altro lato della città.
 Guardai distrattamente le persone che passavano da una carrozza all’altra e notai alcuni sostare in piedi mantenendosi ai pali. Poi un uomo in impermeabile nero spuntò dall’altra carrozza e si guardò intorno. Non potei fare a meno di fissarlo. Che ci faceva con gli occhiali da sole? Stava diluviando. Si volse verso di me e mi affrettai a distogliere lo sguardo.
Fa’ che non mi chieda…
 «È libero?»
E io avrei tanto voluto rispondere di no. Perché chissà chi era e perché non volevo viaggiare con la borsa sulle gambe. Tuttavia sapevo cosa voleva dire affrontare un viaggio in piedi. Annuii. Mi addossai cappotto e borsa e lui si accomodò accanto a me. Gli lanciai un’occhiata di soppiatto. Portava pantaloni neri sformati, guanti grigi e aveva una sciarpa scura attorno al cappuccio che gli copriva quel poco di lineamenti lasciati liberi dagli occhiali da sole. Mi scoprii a pensare a una scusa per cambiare posto; non era consigliabile viaggiare con affianco un tizio di cui non si riusciva a capire neppure mezzo connotato.
 E poi ebbi un’illuminazione. Il trucco della telefonata era infallibile. Pescai il cellulare dalla borsa e alla fermata successiva finsi di rispondere.
 «Dove sei? Ti rag…»
Impietrii. La canna di una pistola premeva contro le mie costole. Come sapevo che era una pistola? Non era la prima volta che me ne puntavano una contro, con l’unica differenza che quella del corso di autodifesa era finta! Socchiusi le labbra e il cellulare mi scivolò dalle mani. Volsi leggermente la testa e lo fissai. Sprofondai nel terrore nel realizzare che nessuno poteva capire cosa stava succedendo, perché il mio cappotto copriva la pistola.
 «Dopo scendi con me»ordinò la voce roca dell’uomo.
Non mi sentivo più braccia, gambe, petto perciò non annuii, non parlai. Due minuti dopo il metrò si fermò nella stazione successiva.
 «Alzati»
Sbattei le palpebre e mi guardai attorno. Volevo gridare, volevo mettermi a correre. Ma dove sarei potuta andare? Vidi l’uomo riporre la pistola, ma tenere la mano nella tasca dell’impermeabile. Quasi non mi accorsi del fischio delle ruote, troppo concentrata sulla presenza dell’uomo dietro di me. La metropolitana si fermò e io mi mossi come un automa verso le porte dove scesi i gradini. Nonostante fossimo sotto terra, senza cappotto stavo gelando e rabbrividii quando mi accorsi che la stazione era talmente piena che non avrei avuto scampo se avessi tentato la fuga.   
 «Ti prego, ti darò tutto ciò che vuoi…»
L’uomo si piegò alla mia altezza e il suo fiato mi solleticò l’orecchio. «Torna a casa»
Ma che…era uno scherzo? Mi girai a guardarlo. «A casa?» Lui annuì e indietreggiò, poi si diresse verso le scale che portavano fuori dalla stazione, confondendosi tra la folla.
 Quando non lo vidi più crollai a terra. Respira, mi dissi. Accucciata sulle pietre del binario, strinsi a me borsa e cappotto e mi tolsi gli occhiali da vista. Cosa diavolo era successo?
 «Signorina?»
Incapace di distinguere quell’ombra che mi sovrastava, piombai di nuovo nel panico. Inforcai gli occhiali e vidi che non era lui. Espirai. Il militare che avevo di fronte mi porse una mano e io la agguantai, non curante del fatto che tremavo ancora. Mi aiutò a tornare in piedi e mi chiese: «Sta bene?»
No! «Sì»dissi, in un soffio. «Soffro d’asma» Il che non era poi una bugia enorme, ero allergica alla metà dei pollini conosciuti.
 «Ha con sé l’inalatore?»
Io annuii ma smisi quasi subito. Mi girava la testa.
«Vuole che l’accompagni al bar?»
Mi parve sensato quindi assentii. Mi fece bere tantissima acqua e zucchero, poi quando smisi di tremare mi chiese: «Ha avvertito la sua famiglia?»
Scossi la testa e cercai il cellulare. Mi rispose al secondo squillo.
 «Lidia? Che è successo?»
Mia madre era così. Temeva sempre che qualcosa potesse succedere. Considerando il fatto che viaggiavo da sola e che di tanto in tanto potevo scomparire nel nulla finendo chissà dove nel passato, non aveva tutti i torti. Io e lei eravamo Viaggiatrici nel tempo, ma ovviamente nessuno doveva saperlo. Per questo quando qualcuno mi chiedeva cosa significasse il tatuaggio che avevo sul polso dicevo solo che era una fiamma stilizzata, un tatuaggio di coppia che avevo fatto con mia madre. Non avrei mai potuto dir loro che era un incantesimo madre-figlia che impediva a entrambe di finire in mare aperto durante i nostri Viaggi nel tempo. Non chiedetemi dove abbia imparato a farlo, mia madre è molto restia a parlare della mia infanzia, del nostro passato. So solo che all’età di undici anni, quando sono diventata “grande” sono apparsa in Australia, dove era pieno inverno, in ciabattine da mare e bermuda. Fortuna che dopo qualche secondo sono tornata al sole di Genova, altrimenti sarei morta congelata. Sì, all’epoca vivevo a Genova, mentre ora, al terzo trasloco, vivevo a Roma con mia madre.
 «Mamma ho avuto un attacco d’asma»
 «Hai avuto…cosa? Dove sei?»Sentii il tintinnio delle chiavi della macchina e non ebbi neppure il tempo di finire di dire “fermata Quintiliani” che lei affermò: «Arrivo subito, non ti muovere»
 Il militare ordinò e pagò un cornetto alla crema per me e mi fece sedere a un tavolino. Solo quando gli dissi che dovevo andare in bagno si decise a andare via. Per carità, magari fossero tutti così premurosi i soldati italiani, ma una ragazza non può avere un po’ di privacy per raccontare a sua madre che le avevano puntato una pistola al torace? Andai davvero in bagno e ci stetti parecchio, cercando di calmarmi. Poi tornai al tavolino e chiamai mia madre mettendo l’auricolare così da poter mangiare in pace.
 «Lidia? Sono per strada»la sua voce mi spaccò un timpano. Mugolai masticando il cornetto. «Allora, è andato via?»
 «Sì»finii il cornetto.
 «Si può sapere cosa è successo davvero
Giusto per ricordarmi la sua presenza il barista cambiò canale e il piccolo televisore nell’angolo mostrò la pubblicità di un succo di frutta. Non potevo parlare dell’uomo incappucciato senza usare un linguaggio in codice.
 «Sono…»
Il volume del televisore sovrastò la voce di mia madre. Una donna in tailleur guardava nella telecamera, doveva essere un notiziario.
  «Roma, grave incidente sulla metro B, un uomo è stato investito all’altezza della fermata Quintiliani. Si ipotizza un suicidio. I soccorsi sono sul posto e si contano almeno venti feriti»
Rimasi a bocca aperta. L’incidente doveva essere avvenuto dopo che l’uomo mi aveva costretta a scendere. Quell’uomo mi aveva…
 «Salvato»sussurrai a me stessa.
 «Eh?»
Presi cappotto e borsa e mi diressi in bagno chiudendomi a chiave.
 «Il metrò che ho preso stamattina ha investito un suicida, subito dopo che sono scesa. Mamma, qualcuno è venuto dal futuro a salvarmi»
Mia madre esitò. «Ricomincia da capo»
Le raccontai per filo e per segno ciò che mi era successo, e quando parlai dell’uomo con la pistola mia madre cominciò a farmi una sfilza di domande.
 «Era come noi, mamma!»la interruppi.
Mia madre borbottò qualcosa di incomprensibile. «Lidia credo che dovremmo parlare»
 La stanza perse di consistenza di colpo. Strizzai gli occhi e li riaprii, ma era come se avessi tolto gli occhiali. La mia immagine nello specchio sembrava ricoperta da un telo, il lavandino si sdoppiò. Stavo per Viaggiare nel tempo. Io e mia madre avevamo deciso che, considerato che spesso il nostro dono dava solo un breve preavviso, ci voleva una parola in codice per avvisare l’altra in fretta. Per questo esclamai: «Crostata!»
Poi la linea cadde, il mondo diventò nero e io sentii rumore di zoccoli.

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