Scrivere è stata la mia vita. Creare mondi e immaginare storie mi ha sempre entusiasmato. Più di una professione è stata una passione, viscerale. Adesso mentre completo le ultime righe della mia esistenza, in questa luce d’ambra in cui finisce anche la giornata, guardo la collina e ripenso a come presi coscienza della mia vocazione.
Quella mattina di tarda primavera ci alzammo molto presto, prima ancora del sole. Il lavoro da fare era tanto e doveva essere finito entro sera: falciare tutto il prato e curare le numerose piante del Podere Alto –come venivano chiamati i campi dei Signori - avrebbe occupato tutta la giornata. Papà era “IL” giardiniere. Il migliore. Tutti si rivolgevano a lui quando volevano consigli o avevano problemi con l’orto o le piante, venivano apposta anche da molto lontano.
 Io non ero pratico. Non capivo niente di piante o di fiori, ma ai miei genitori non importava, io dovevo studiare: quello era il mio lavoro. Ma come la maggior parte di quelli obbligati a fare qualcosa, anche a me non piaceva il mio compito: non ero un granché a scuola. In compenso leggere mi appassionava. Mi mettevo sotto la finestra, accoccolato nella grande poltrona di papà, le gambe raccolte, il braccio intorno al libro e non appena cominciavo a leggere, mi estraniavo da tutto quello che mi circondava. Le lettere diventavano immagini, vedevo le descrizioni, sentivo le parole, vivevo le situazioni: tutto di me partecipava alle azioni evocate da quelle righe. Leggere era come meditare: non percepivo più il corpo così com’era in quella poltrona. Dallo spunto di quelle pagine prendevano vita sviluppi paralleli, altri intrecci. Fantasticavo, sognavo di volare via da quella valle incuneata tra le montagne dove c’era solo fatica e così poca luce. Tranne che in quel periodo dell’anno, infatti, il sole riusciva ad accendere di colori solo la cima della collina contenuta dall’irregolare corona dell’alto muro di cinta; una barriera che a quel tempo immaginavo non solo delimitasse proprietà dei Signori, ma impedisse anche al sole di scendere fino alle nostre case: i Signori avevano ogni cosa, terre, denaro, potere. Anche il sole.
Io volevo lasciare tutto quello. La soluzione la cercavo nei libri. Non sapevo ancora come, ma ero sicuro che in quelle storie avrei trovato la risposta. Lì altre persone avevano lottato e superato prove anche più difficili della mia, trovato soluzioni: il mondo era pieno di Signori da affrontare e muri da abbattere, ma era anche pieno di luce e io volevo raggiungere la mia.
La mamma si era alzata prima di noi per preparare le provviste per la giornata di lavoro: la cucina aveva un buon odore di pane. Vicino al cestino aveva messo anche i cappelli di paglia per ripararci dal sole. Mentre mi guardava entrare, elettrizzato per la novità, i suoi occhi erano pieni di apprensione e aspettativa, i miei di orgoglio e di sonno. Papà si era preparato alla svelta, era già salito alla tenuta con gli utensili più pesanti poi, col passo lento e sicuro che riconoscevo anche da lontano, sarebbe tornato giù a prendere me e gli altri attrezzi. Dopo, con la stessa cadenza, saremmo saliti insieme, verso quel mondo estraneo. Dopo gli ultimi brutti voti presi a scuola, mio padre aveva deciso di portarmi a lavorare con lui: dovevo capire il significato della fatica, considerarmi fortunato di non doverla provare alla mia età, come era già toccato a lui.
Appena alzato andai in bagno a lavarmi e intanto pensavo: saremmo saliti alla proprietà dei Signori dove non ero mai stato, pochi ci potevano entrare ma quel giorno ci sarei entrato anch’io. Ero incuriosito, ansioso e spaventato allo stesso tempo. La sera prima l’avevo tormentato perché mi dicesse qualcosa di loro, chi erano, se li avrei visti, come si comportavano, com’era quel podere. Lui aveva semplicemente scrollato le spalle e mormorato:
- Vedrai.
 Una risposta che diceva tutto e niente ma alle mie orecchie suonava come una minaccia. In compenso sapere che ci sarebbe stato anche lui mi dava sicurezza, anche se non potevo fare a meno di provare paura. Dovevo farmi coraggio, non dovevo deludere papà… come a scuola. L’acqua calda scendeva energica dal rubinetto della vasca da bagno. Lo scroscio, il vapore e il sonno erano il sottofondo dei miei pensieri. Con gli occhi serrati, cercavo di immaginarmi come sarebbe andata ‘sta giornata. Cominciai a inspirare ed espirare profondamente per mantenere la calma, come avevo imparato a fare in altre occasioni, quando volevo allentare la tensione. Nella mente avevo iniziato il conto alla rovescia :
..5..
Inspiravo alla svelta espandendo il più possibile il torace, poi espiravo a lungo cercando di espellere tutta l’aria che avevo nei polmoni. Procedevo con respiri lenti e profondi, e intanto continuavo a scandire lentamente i numeri a ritroso. Una volta arrivato al termine sarei stato pronto:
-...4...3...
l’ansia, il caldo, il vapore mi facevano sudare: sentivo avvicinarsi la condizione tanto attesa. Il leggero formicolio alle labbra e alle dita delle mani
-...2...
significava che stava andando tutto bene.
...1.
Finalmente una calma assoluta si impossessò di me lasciandomi completamente lucido e al tempo stesso estraneo al corpo, solo una lieve sensazione, come se stessi cadendo o meglio, sprofondando all’indietro e in basso, nel buio più assoluto: questione d’un attimo. Progressivamente vidi una luce fioca, sempre più chiara fino a diventare un giallo sole d’estate. Mi trovavo su una spiaggia deserta, davanti a un mare sconosciuto, acqua verde-azzurra come vetro liquido. Piccole onde strisciavano indolenti sulla battigia per poco meno d’un metro lasciando un minuscolo profilo di schiuma nel limite raggiunto, un ricordo dello sforzo, poi veloci rotolavano indietro, verso le sorelle in attesa. Alle mie spalle dune di sabbia. Piante dal tronco grigio chiaro, cespugli con foglie d’un verde abbacinante e fiori colorati come un carnevale, intervallavano la distesa bianca. Sulla destra, a qualche centinaio di metri, scogli rugginosi alti alcune decine di metri ricoperti da una spruzzata di licheni giallastri, scendevano in acqua a balze irregolari, creando buche, grotte ed anfratti. Nel blu intenso del cielo, strisce di nuvole come panna, spinte dai venti, modificavano di continuo l’aspetto. A terra solo una piacevole brezza. Mi guardai attorno: nessuno. Scesi lentamente nell’acqua fresca, alcune bracciate, poi a galleggiare sulla schiena. Che meraviglia! Niente muri, niente Signori: quello era il paradiso. Dopo alcuni minuti ricominciai a nuotare. Aiutato da una debole corrente, arrivai fino agli scogli in poche bracciate. Nuotandoci intorno, cercavo di scrutarne la sagoma sommersa: immergersi in quei pochi metri d’acqua trasparente e poco salata sembrava abbastanza semplice. Dopo circa una mezz’ora di sali e scendi, vidi unaspaccatura più luminosa e decisi d’entrarci. Prima, in altre tre o quattro immersioni, esplorai l’ingresso e la direzione di quel buco poi, dopo aver inspirato ed espirato velocemente più volte, presi una gran boccata d’aria e poi giù, da perfetto incosciente quale ero. Entrai facilmente, proseguendo all’interno a forza di braccia e aggrappandomi alle rocce. Lo spazio era minimo, la luce più che sufficiente per proseguire. Continuai così per diversi metri prima di sentire che stavo esaurendo l’aria. Mi muovevo lentamente per non sprecare ossigeno. Avanzai ancora un po’ e il diaframma si contrasse: dovevo riemergere! Poco oltre, vidi una sporgenza dietro la quale la luce sembrava più intensa. Il diaframma ebbe un paio di spasmi. Mi concentrai più intensamente sui movimenti essenziali. Non dovevo farmi prendere dal panico. Un altro metro. Il sangue pulsava nelle orecchie: tump...tump..tutta la fatica per arrivare fin lì, ero ormai così vicino: avevo trovato il paradiso ed ora… CALMO! Il diaframma mandò un altro treno di contrazioni: ultimo avvertimento. Se non fossi riemerso subito sarei svenuto e… addio. Con la poca lucidità rimasta e il sangue che sbatteva sempre più forte nei timpani: tump… tump...
Raggiunsi finalmente la sporgenza dove, attraverso l’ultimo paio di metri d’acqua, vidi un’immensa caverna. Da alcuni squarci nell’altissima volta, entrava la luce del giorno e l’aria. L’avevo raggiunta! Col misero residuo di forze mi detti una spinta di gambe per superare quella distanza e… tump… tump … altri colpi, più forti.
- Allora Renato! Hai finito o no di stare chiuso in bagno! Devi andare a lavorare col papà!
La voce della mamma e i colpi sulla porta mi scossero dalla trance della mia fantasia: ero ancora nella vasca da bagno della mia casa, ero ancora nella valle.
Quella fu la prima volta che, anche se involontariamente, creai una storia tutta mia. Il resto della giornata fu ben poco rispetto al mondo fantasticato nella vasca da bagno. Ciò che mi rimase impresso furono solo due cose: la stanchezza e l’orgoglio. Della prima, insieme alla muscolatura tutta indolenzita che appena arrivato a casa mi fece cadere sul letto senza neanche cenare, dopo un paio di giorni non c’era più traccia mentre, l’orgoglio d’aver lavorato fianco a fianco con mio padre per l’intera giornata senza mai lamentarmi, ma ripagato dal suo sguardo d’approvazione, ha continuato ad accompagnarmi per tutta la vita. Il risultato fu che cominciai a leggere molto di più i libri di scuola; le storie che mi appassionavano così tanto iniziai io a crearmele, e da allora, ho continuato anche per gli altri.

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