29 luglio 1973
Sappiate che non è stato semplice. Ero agli esordi, voglio dire, di strada ne avevo fatta, e tanta. Ma quel tipo di quattro ruote che avevo sotto le chiappe era diverso: mostri da 500 cavalli. Aggeggi da 300 kmh per intenderci. In fin dei conti erano scelte. E io la feci. Di un vero lavoro, intendo, roba da ufficio, alle cinque del pomeriggio in un pub, un paio d'ore dopo a cena con una moglie che ti avrebbe preparato il solito stufato, con le solite fottute patate a contornare una serata, come dire, solita. No, non era nelle mie corde. Volevo la fama. Volevo soldi più facili. Volevo divertirmi, e sappiate che in quel mondo, quello della Formula 1, quel genere di divertimento era la prassi. Avevo le carte in regola, insomma. Le carte giuste per sfondare. Per spaccare il sistema; per sderenare quell'austriaco vinci-tutto. Mi misero su una March. Arrivavo da due campionati vinti. Si giocava forte sulla mia persona; dicevano di me che avrei rimpiazzato, a breve, James Hunt. Insomma le mie quote erano al rialzo, da mesi. I bookmakers mi accreditavano di una vittoria entro la mia terza, massimo quarta gara. Cazzo, si sbagliavano, non arrivai alla seconda. Avrebbero dovuto scommettere su Zandvoort; su quella dannata gomma che ha deciso di piantarmi in asso; avrebbero dovuto puntare tutti i loro pounds sulla negligenza della security olandese. Infine scommettendo su quel maledetto unico estintore, che avrebbe potuto spegnere al massimo una scatola di fiammiferi, si sarebbero arricchiti a vita. Io a Zandvoort non c'ero mai stato. Cazzo a ben pensarci nella mia breve vita in Olanda non avevo mai messo piede; nonostante quello che si vociferava; nonostante le dicerie sulle donne e la loro facilità nell'essere conquistate. Si non posso lamentarmi: venticinque anni, fisico atletico, volto piacevole. Efelidi ingannevoli e traditrici. Potenzialmente nel dopo gran premio avrei potuto dire la mia. Si insomma, voi mi capirete..
Parto bene. Niente a che vedere con il GP precedente: Scheckter aveva pensato bene, alla partenza, di buttarne fuori diciannove in un solo colpo. La mia March tiene bene. I primi giri sono di studio, come sempre. Approccio traiettorie non comuni. Azzardo qualche sorpasso. Testo sul rettilineo la potenza del mio motore. Tutto scorre. Di arrivare sul podio, questa è la speranza. Vincere sarebbe magnifico. Ma Lotus, Ferrari e McLaren hanno un passo in più.
Penso e guido.
Passo il traguardo del sesto. Soddisfatto di questi primi chilometri. Sto andando bene.
Il serbatoio pieno mi garantisce potenza e rendimento; l'aerodinamica della mia vettura fende l'aria. La giornata promette bene.
A questo punto della vicenda, cioè quando tutto sembrava andare per il verso giusto, il mio anteriore destro dechappa. Vedete, è molto semplice. La mia March è lanciata sul rettilineo, una delle mie gomme decide di giocarmi uno scherzo. Io perdo il controllo. Rimbalzo su un terrapieno. Mi piego su un lato, l'attrito con l'asfalto, rovente, aziona le prime scintille. Che poi divengono fiamme. E in ultimo generano un vero e proprio rogo. Insomma io sono li, all'interno di quel falò. Le cinture di sicurezza per una volta, una sola dannatissima volta, fanno il loro mestiere: non si slacciano. Anzi vanno a fondersi con la mia tuta. L'abitacolo, il mio, è l'anticamera dell'inferno. Respiro a fatica. Mi restano circa sessanta secondi prima di abbrustolire, in maniera definitiva. Arrivano i primi soccorsi... ma se ne vanno. Dove diavolo andate, codardi. Le auto dei miei colleghi mi sfiorano. Il loro passaggio alimenta per effetto dell'aria il fuoco che arde le mie carni, che penetra nelle mie membra. Poi qualcuno ha il cuore di fermarsi.
Certo lo riconosco: è David, è della March anche lui. E' inglese come me. Lo so. Mi tirerà fuori. Ne ho la certezza. Lo vedo affannarsi con un misero estintore; noto la sua fatica, il suo sforzo di ribaltare in solitaria un mostro in fiamme di 400 chili...
Vedo dalla mia visiera la sua forza, il suo coraggio: dai David. Ancora un ultimo tentativo. Non mollare.
Ora il cielo sembra cambiare colore. O forse sono i miei occhi che non colgono le sfumature. Le mie mani sono andate. Le gambe, incastrate ad arte, non rispondono a nessun genere di sollecitazione. Respiro affannosamente.
Dai David, non mollare.
Pochi secondi ancora e sarò fuori.
Che giorno è oggi? Cerco di pormi domande, anche banali, per restare attivo. Per sollecitare la mia mente.
Forza David, non mollare.
Provo a ricostruire logicamente l'accaduto: una gomma, una scintilla. Il fuoco. Un estintore. La mia pelle che si sfalda, assieme a lei la mia memoria, la mia essenza. La mia vita. Un uomo che ferma la sua gara. Attraversa la pista, corre verso di me. Le vedo le tue lacrime, David. Vedo il tuo dolore. Il tuo sconforto. La tua rassegnazione. Dai David continua, non arrenderti. Non farmi arrendere.
Ho sempre amato il sette. Si diceva dalle mie parti, Leicester, che portasse bene. Si diceva che aveva a che fare con un giro completo della ruota della vita. Quello, in effetti, fu il mio giro. Quello finale. Quello del non ritorno.
E oggi, 29 luglio 2013, ne ricorre il quarantesimo anno da quel mio insolito compleanno.

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