Scrivo questa lettera in caso mi succeda qualcosa -so che prima o poi sarà così- affinché quando sarà ritrovata, tutti sappiano cosa mi è successo nell’ultimo anno. 

Mi chiamo Rebecca Martisson, ho ventinove anni e ho sempre vissuto a Stoccolma. 

Ho avuto una vita molto felice, due genitori presenti e amorevoli, una sorella che adoro. Ho sempre pensato che un giorno avrei voluto creare anch’io una famiglia così unita e affiatata. Adesso vorrei solo fuggire.

Dopo la laurea ho preso un appartamento nel centro di Stoccolma e da lì ho iniziato la mia vita da adulta. Fino a poco tempo fa ho lavorato come fisioterapista in una clinica privata. Amavo il mio lavoro. Da circa un mese sono chiusa in casa e ho dovuto presentare un certificato di malattia per gravidanza a rischio. Peccato che quel bambino non c’è più, ma a lavoro non posso presentarmi comunque perché i lividi non riesco più a coprirli.

Oggi ho un po’ più di forze e allora approfitto per far luce su quello che mi è successo, so che la fine in un modo o nell’altro è quasi vicina.

Ho conosciuto Vincent una sera di settembre dell’anno scorso in un pub. Mi ero fermata lì per mangiucchiare qualcosa dopo la palestra, quando lui si è avvicinato e abbiamo iniziato a parlare. Dopo qualche birra e un po’ di chiacchiere mi era sembrato un bel tipo. Affascinante, carismatico, gesti che colpivano e un sorriso ammaliante. A fine serata, ci siamo scambiati i numeri e la promessa di un nuovo incontro. 

In poco tempo abbiamo inziato a frequentarci assiduamente e a considerarci una coppia a tutti gli effetti. Molto spesso rimaneva da me a dormire, e dopo qualche mese lo presentai alla mia famiglia e alla mia cerchia di amici. Tutti lo adoravano, mi sembrava di vivere un sogno. 

Era sempre presente per me, mi stupiva con piccoli regali, mi accompagnava o riprendeva da lavoro, rispettava la pizza al venerdì sera con le mie amiche. Era l’uomo perfetto. 

Tutto iniziò a cambiare dopo qualche mese in cui praticamente viveva da me. Piccole insinuazioni sul mio modo di vestirmi, sui messaggi che magari ricevevo da dei colleghi, o se parlavo troppo di qualcuno di essi. Non ci davo peso, pensavo che un pizzico di gelosia in un rapporto non guastasse. Cercavo di accontentarlo allora. Eliminavo le gonne, non parlavo più troppo del mio lavoro, iniziai persino a declinare qualche venerdì con le mie amiche di sempre. Ma questo tentativo non andò troppo a buon fine. Iniziò ad accusarmi di mentirgli, di nascondergli le cose. Io volevo solo che le cose tra noi continuassero come erano iniziate. Mi accorsi però che piano piano gliela stavo dando vinta su molte cose e che stavo perdendo un po’ della mia libertà, e iniziando a vivere con l’ansia. Feci un passo indietro, gli chiesi di vederci fuori da casa mia, di fare qualcosa insieme come i primi tempi. Uscì fuori di testa, ma alla fine accettò, pregandomi di non lasciarlo perché mi amava. 

Ripresi un po’ in mano la mia vita, peccato che dopo qualche settimana me lo ritrovai dentro casa dicendomi che non aveva più un posto dove andare. A casa dei suoi erano arrivati dei parenti che lui non sopportava e voleva cambiare aria. 

Non mi dispiaceva, anzi ero felice, le cose tra noi stavano andando benissimo. Lo amavo e lui amava me. 

Una sera stavo preparando la cena e mi arrivò un messaggio. Era il mio collega Leonard che mi chiedeva se fosse possibile scambiarci i turni per il giorno dopo. Lui fu più veloce di me. Prese il telefono, e a quel messaggio ci ricamò sopra una storia frutto della sua fantasia. Arrivò il primo schiaffo, le prime parole forti. Ma anche lì non capii. Che stupida. Il giorno dopo a lavoro feci una sfuriata contro i miei colleghi per non essere più disturbata a casa; che delegassero queste cose all’ufficio del personale. Primo ponte tagliato. Da lì non mi hanno più trattata con la stessa confidenza e cordialità. 

E da lì ogni sera lui mi controllava il telefono e ad ogni messaggio “strano” arrivava uno schiaffo. Il giorno dopo erano scuse e pianti, e promesse sul fatto che non sarebbe più capitato. E io ci cascavo. 

Poi toccò alle mie amiche. Ogni venerdì sceglievamo un locale diverso, e lui era lì seduto in disparte senza che noi potessimo vederlo e ci osservava. Tornavo a casa, e lui sapeva tutto. Le ingiuriava, le chiamava poco di buono, diceva che io perdevo il mio tempo con loro. Io avevo un uomo, loro no, cosa avrebbe pensato la gente vedendomi accanto a loro?

La cosa più buffa? Che a furia di sentirmi dire queste cose, iniziai a crederci anch’io. E ai venerdì iniziai a mancare e  ai messaggi a non rispondere. Quando mi chiesero se ci fosse qualcosa che non andava, risposi evasivamente che volevo concentrarmi di più sulla crescita del mio rapporto con Vincent. 

Alla mia famiglia mi mostravo felice, non volevo farli preoccupare, speravo che assecondandolo le cose sarebbero cambiate. Inoltre, quando incontravo i miei lui era sempre presente, quindi non avrei neanche potuto far capire qualcosa. 

Io lo amavo e credevo alle sue scuse dopo le botte, alle promesse di una vita felice, di una famiglia. 

Pretendeva di accompagnarmi a lavoro, rimaneva ore e ore fuori per accertarsi che non scappassi da lì, mi fece disdire l’abbonamento in palestra. 

Vivevo per lui, ma non era mai contento. Insinuava sempre che gli mentissi, che gli nascondessi qualcosa nonostante avesse pieno controllo su tutti i miei spazi. Mi rivoltava la casa per cercare segreti che non c’erano. Più non ne trovava e più mi picchiava. 

Non facevo - e ancora oggi - altro che tremare. Ormai vivevo e vivo nel terrore. 

Ho capito che non cambierà mai, lui è malato, ma ormai intorno a me ho creato solo vuoto per poter chiedere aiuto. 

Da quando abbiamo scoperto la gravidanza mi ha rinchiusa in casa e non lascia avvicinare nessuno, neanche mia mamma, spiegando a tutti che devo stare a riposo tutto il giorno a causa di un distacco di placenta. 

In realtà, quando ha visto il test positivo, mi ha picchiata così forte da farmi avere un aborto spontaneo perché non crede che quel figlio sia il suo. Sono chiusa in camera da letto da due settimane. Apre la porta due volte al giorno per passarmi del cibo e farmi andare in bagno. Se è calmo mi lascia stare, altrimenti mi picchia ancora. Dice che questa non me la perdonerà mai.

Sono piena di lividi, mi ha tolto tutto, l’affetto delle amiche, il rispetto dei miei colleghi, il mio lavoro, i miei hobby, la mia voglia di vivere, e soprattutto il mio bambino. 

Questa lettera è la mia unica speranza per chiedere aiuto, o se sarà troppo tardi, l’unica speranza per fargliela magari pagare. 

L’ultimo pensiero è per la mia mamma. Perdonami mamma per non aver riconosciuto in questo mostro un pericolo e per non aver chiesto aiuto. Spero di non spezzarti troppo il cuore, ti amo, vi amo. 

Rebecca

 

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