Il miagolio straziante mi provoca una brusca vertigine e annienta le scuse del cretino, fresco di foglio rosa e incapace di gestire una banale retromarcia. Lui vorrebbe rifarsi la coscienza aprendo il portafoglio, ma io lo spedisco all’inferno senza tante cerimonie.

Dio buono, è il pomeriggio del Capodanno. Non posso scovare un veterinario e, in ogni caso, riuscirebbe a fare ben poco. Ormai le interiora fuoriescono dall'addome e gli occhi, non ancora velati dalla morte, esprimono un rabbioso terrore.

Il cortile del caseggiato pullula di ragazzini e i soliti ficcanaso si radunano intorno al ferito. 

«Ehi, Ivan, ti conviene accopparlo subito» decreta il più sveglio della ghenga, impaziente di assistere allo spettacolo. «Tu sai come risolvere il problema.»

Mi volto e lo inchiodo con uno sguardo. «Sparisci, sono fatti miei.»

Il branco si disperde, i piccoli tornano ai loro giochi, i più grandicelli arretrano senza convinzione. Io prego che la mamma sia uscita e imbocco le scale, mi fiondo in camera, spalanco il primo cassetto del comò e butto all’aria calze, slip, fazzoletti.

Le dita febbrili artigliano l’impugnatura sagomata di una chiave. Io bestemmio tra i denti, apro l’ultimo cassetto e immergo la mano fino a toccare il fondo. La fretta brucia l’autocontrollo, eppure so dove ho imboscato la Walther.

Scendo le scale di corsa, mi guardo attorno e affronto il cortile. I bastardelli spiano con sordida curiosità. Devo ignorarli, proseguire a testa bassa e schivare le occhiate in tralice.

La mente arranca tra una parete rocciosa e lo strapiombo. Io respiro a bocca aperta, ma i polmoni sembrano inerti, come cartapesta. A cosa serve l’aria senza l’ossigeno della libera scelta?

Volo a prendere la macchina, stendo un giornale sui sedili posteriori e vi adagio il morente. Dopo una cascata di urli e soffi, lui comincia ad ansimare, in un'agonia mostruosa. A ogni semaforo, maledico l’universo e sputo bestemmie, tamburellando le dita sul volante. Il traffico mi imbottiglia davanti al piazzale della stazione, poi tre o quattro macchine tentano la sorte nel parcheggio e il flusso riprende a scatti irregolari.

Appena fuori città imbocco un sentiero, a velocità controllata, e percorro un centinaio di metri. La pressione della scarpa sul freno causa sobbalzi violenti e miagolii tronchi. Io abbasso il sedile anteriore e lo scavalco, misurando ogni gesto.

Il tormento è durato anche troppo. Inghiotto una boccata di saliva, riprendo fiato e infilo la mano nella tasca destra del chiodo. Il mio amico respira ancora, ma gli occhi torbidi fissano già il vuoto. La tortura dev’essere atroce e ogni istante perduto accresce il martirio.

Un colpo secco tronca l'affanno, io intasco l’arma e verifico che il gatto sia morto. Non ho portato nulla per seppellirlo e lo depongo, avvolto nel sudario di carta, in un solco tracciato, a mo’ di confine, fra due appezzamenti.

È tardi, però non ho fame. Abbasso il ribaltabile e mi lascio incantare dalla foschia che sale dai campi. Scruto il grano nuovo, i pioppeti, le macchie di arbusti, i gerbidi brulli, poi socchiudo gli occhi e accendo una Gauloises. Il suo aroma aspro stempera la tensione.

Perché la morte non è un tocco evanescente? Perché schianta e sconvolge fino alla pazzia?

Il giorno fatidico troverò anch'io un angelo armato di una Walther PPK 7,65 o una lenta e crudele tortura?

Sono domande assurde, ma il cervello annaspa per cercare risposte plausibili. Un meschino che lotta per tirare le cuoia è uno spettacolo odioso, eppure è anche una dannata legge naturale.

Riapro gli occhi e cerco la sagoma del gatto oltre le zolle grigie, coperte da macchie d’erba fradicia.

No, non è il pensiero la linea di confine tra la vita e il nulla. È la sofferenza inesorabile e vigliacca. La bestia che si arrende solo davanti alla carne morta.

Lo so, l’angoscia e la fantasia giocano strani scherzi e persino un cialtrone del sottobosco può scoprirsi filosofo.

Smentire un genio non è come dare sulla voce a quattro ubriachi che giocano a carte in un bar, eppure la verità è a due passi da me, avvolta nella gazzetta. Io soffro quindi esisto.

Sputare sentenze è sempre stato il mio tarlo e la mia rovina. Dovrei evitare le buffonate e uscire da un mondo pieno di facce livide, rabbia cupa e terrore sotto pelle.

La mamma non spreca parole, ma le sue occhiate oblique sono fin troppo esplicite.

Il senso del pudore sarebbe un discreto rimedio e, se fosse in vendita, dovrei comprarne almeno una tonnellata.

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