“ Si va in scena nella pasticceria “ (maggio 1975)

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    Una coppia entra in pasticceria. Lui, un uomo basso di statura ed un po’ tracagnotto, dal viso quasi completamente nascosto da un paio di occhialoni, ha tutta l’aria di chi sta già divorando i dolci senza averli ancora assaggiati. Il suo pomo d’Adamo è uno stantuffo in azione e gli occhi sembrano voler aggredire ed infrangere la barriera di vetro dietro la quale, in paziente attesa di venire trasformate in vittime, giacciono le leccornie. La forte soggezione che lo investe allorchè egli parla con la gente lascia in quel momento ampio respiro ad una sorta di gioia compensatrice: l’uomo brevilineo, esaltandosi alla prossima conquista delle prede zuccherate, già intravvede una chiara vittoria da parte sua nei confronti delle inibizioni che lo bloccano. La donna, un tipico esemplare della famiglia dei “mi faccio gli affari del prossimo che adoro tanto”, ha difficoltà nel nascondere la propria stizza. Ella, infatti, non avrebbe voluto forse nemmeno che si entrasse in un posto tale dove il peso del marito “è in serio pericolo” ed allora si mette all’opera per spegnere un rischioso fuoco d’entusiasmo di golosità. “Su quel babà c’è troppo rhum…I pasticcini alla crema non mi sembrano freschi…” : i suoi occhi grigi, carichi d’altruismo, volano da un dolce all’altro, rapidi e palesi nell’intenzione che manifestano. E’ un gioco abbastanza crudele e la donna adopera tutta sé stessa al fine di ottenere un risultato che sia sufficientemente traumatico per il marito (traumatico ma benefico nel senso della salvaguardia della salute, s’intende!) Tristezza e rabbia impotente  s’impadroniscono dell’ometto il quale riesce a deglutire solo i pochi grammi di cibo concessigli dalla forte compagna. Poi,”dulcis in fundo”, fa adagiare il corpo della sua sconfitta su un letto di rassegnazione, paga ed esce sottobraccio alla condottiera che esalta il suo trionfo con frasi come “Caro, erano buoni, è vero?...Io ho l’occhio per certe cose!” La giovane e bella commessa che li ha serviti e “pesati” tira un sospiro di sollievo nel vederli uscire e sorride alla cassiera, facendo nel contempo delle considerazioni scherzose, felice di sentirsi, al paragone con i coniugi, un essere umano pieno di vita.   

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       Una donna anziana entra in pasticceria. Porta indosso una pelliccia di valore ed ostenta ricercatezza nei gesti e nel parlare. I suoi capelli che nascondono l’autentico colore sotto quello della tintura ringiovanitrice, devono essere in realtà come gli occhi grigi, carichi d’autunno, che campeggiano nel volto sottile e sfuggente. Mentre ella fa le ordinazioni, la sua voce tradisce una certa stanchezza; ad ogni apprezzamento, poi, le palpebre tendono a socchiudersi con movimenti forzati, come se la donna si trovasse a scrutare un orizzonte riccamente assolato. All’atto di pagare, infine, l’attempata signora si dedica ad esaltare la regalità di movenze che precedono il clou finale: l’uscita dal palcoscenico-negozio, degna della corte di un Lorenzo il Magnifico.

                                     

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         Il vice-questore della città entra in pasticceria. E’ un uomo dalla statura proporzionata alla sua posizione sociale: è imponente ma sicuramente meno alto del questore; ha capelli brizzolati ed occhi che esprimono una grande voglia di arrivare lontano. I suoi gesti sono rapidi, molto decisi ma nell’espressione del volto si può leggere anche che un po’ tutto il genere umano, ed in special modo la categoria degli idealisti, non gli è di troppo gradimento. L’alto funzionario indossa un vestito grigio scuro e sulla camicia perfettamente stirata, si suppone da un’alacre serva molto compita che riesce a stare alla lettera con due piedi in una scarpa, porta una cravatta la cui scelta deve essere stata voluta ed operata all’insegna dei miti della serietà e della morigeratezza. L’agente che lo accompagna è la sua ombra; si dedica ad ascoltare il vice-questore con tutta la deferenza e la devozione possibili ed immaginabili, allorchè il notabile si degna di rivolgergli la parola, ed è prontissimo ad adoperarsi al massimo per soddisfare in pieno ogni eventuale desiderio.

 

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   Due giovani entrano in pasticceria. Hanno un’età apparente di ventitre-venticinque anni, portano folte barbe incolte che palesano la loro intenzione di somigliare a Bakunin, o fors’anche a Lenin o addirittura ad un’incarnazione di Zarathustra, ma vestono con falsa trasandatezza, con costosi giacconi e blue-jeans comprati nei negozi più accorsati e rinomati al centro della città, e si muovono con una disinvoltura ricercata, di chiara estrazione tutt’altro che proletaria. Sono certamente studenti universitari muniti di un marchio garantito di fuori-corso; “…Sapori vuole tutto a modo suo, interroga senza gli assistenti! “ dice uno in tono enfatico e l’altro annuisce aggiungendo una forte dose di autoconvinzione, comportandosi da perfetto discepolo, o magari succube, che sente l’altrui ascendente. A loro, tutto sommato, importa poco dei dolci: i due sono entrati per far sfoggio di sé stessi e l’acquisto diventa un atto puramente formale ma finalizzato a mostrare prosopopea giovanile e goliardica. Naturalmente la scelta viene operata da quello che assume il ruolo del capo carismatico, o capo-cellula, o capo-sezione: egli ha il potere di interpretare e soddisfare pure i gusti del seguace. Infine i due giovani manichini escono, il discepolo porando con sussiego il pacchetto contenente i dolciumi, si avvicinano all’auto del maestro e vi trovano una multa attaccata al parabrezza, sotto uno dei tergicristallo. “Uffa, “ dice il capo. “Devo dirlo nuovamente a papà…Sono proprio dei cani!” Poi, insieme con il secondo, entra in macchina con atteggiamento da pilota di formula uno e parte “sparato”, facendo sobbalzare in avanti il mezzo meccanico e stridere le ruote sull’asfalto.

                                   Carlo Giarletta

     

 

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