«È cominciata per gioco e, forse, non è stato che un gioco».

Jill spinse il cartoncino bianco verso Daphne.

Era un comune rettangolo di carta rigida. Sulla formica bordeaux del tavolo, alla luce della vecchia lampada a incandescenza, mostrava tutta la sua ordinarietà. Un biglietto da visita di poco prezzo, stampato dalla macchinetta di qualche centro commerciale.

Daphne lo prese, rigirandolo tra le dita. «U. Buz. Inc?».

Nell’angolo a sinistra c’era la sagoma di un uomo intento a leggere un libro. Accanto, una pila di volumi e qualche oggetto cilindrico che avrebbe potuto essere un rotolo di papiro.

«Aveva pensato di sostituire i libri del disegno con un e-reader, ma gli era venuto in mente che un lettore di e-book non avrebbe neanche preso in considerazione un biglietto da visita cartaceo» disse Jill.

Daphne le porse il biglietto «Il gioco di parole mi pare sbagliato».

Jill non lo prese e lei lo posò sul tavolo accanto al test di gravidanza.

«Allora non conoscevo la parola. O non mi era venuta in mente, forse per via della “z”. “Incubus” è la grafia giusta». Si accese una sigaretta, poi cercò il posacenere. Stava il più lontano possibile dal test di gravidanza come per un’inconscia, prematura forma di protezione. «Comunque è un anagramma» concluse «Una specie».

«La “U” sta per...? » chiese Daphne.

«Ulysses. Diceva che era il nome giusto per uno che viaggiava tanto».

Daphne si accese a propria volta una sigaretta soffiando il fumo verso l’alto. La lampadina fu coperta per qualche istante da una patina grigia. «Ci sapeva fare con le parole».

Jill spostò il posacenere al centro del tavolo. «Ci sapeva fare. Ma c’è sempre la faccenda della “z”».

«Buz è un nome idiota» disse Daphne «Non lo userei per una ditta, anche se fosse il mio». Scosse la sigaretta. Cadde un po’ di cenere. La osservò come se volesse scorgere in essa la risposta alla domanda che stava per porre. Alla fine parlò. «Pensi che ti darebbe qualcosa? Se sapesse, cioè. Se tu volessi».

«Potrei trovarlo. Ho i dati fiscali».

«Ma non vuoi farlo».

Socchiudendo gli occhi, Jill guardò la lampadina. Continuava a brillare, caparbia come una sentinella in una ridotta che sa che la guerra è perduta ma non vuole abbandonare il suo posto.

«Bastardo» concluse Daphne.

«Dillo».

«Bastardo».

«No. Dì quello che avevi in mente».

Daphne guardò il test di gravidanza.

«Che cosa cerchi in un uomo? » continuò Jill.

«Cristo, Jill».

«Mi è venuto in mente quasi subito. L’anagramma. Zeta o no. “Incubus”. Ma lui mi ha spiegato che cosa vuol dire. Dal latino "incubare". Demoni che gravano sul petto dei dormienti, portando loro brutti sogni. E, a volte, mettendo incinta le donne».

«Cristo, Jill, piantala» ripeté Daphne spegnendo la sigaretta. Il cilindretto di carta sfrigolò accartocciandosi. Una traccia di rossetto lo circondava come una bocca aperta in una O di sorpresa.

«Portavano un berretto in testa e a volte lo perdevano. Chi lo trovava acquistava il potere di scoprire tesori nascosti. Era un berretto conico. Sai, tipo quello dei nani di Biancaneve. Comunque sì, penso che mi darebbe dei soldi, se sapesse del bambino. Ma non mi aspetto un tesoro».

Daphne si alzò dirigendosi verso il frigorifero, come se il fatto di muoversi potesse sciogliere le parole che non riusciva a dire. Aprì lo sportello e prese due birre. Le posò sul tavolo.

«Senti, Jill, io non ti giudico. Sono cose che capitano. Ci sei finita a letto e basta. So della tua educazione cattolica e tutto il resto, ma non devi tenere il bambino perché pensi a una specie di punizione. Come pensi che lo tireresti su se lo considerassi una sorta di... castigo divino?. Devi tenerlo se vuoi tenerlo. E, se lo fai, devi decidere se dirlo a... ma come fa uno a chiamarsi “Buz?”».

Jill afferrò il biglietto da visita. «U. Buz. Inc. Per una casa editrice va bene, no?. Specie se è specializzata in storie del terrore. Voglio dire... se uno è abbastanza sveglio da scovare l’anagramma».

Daphne si protese sul tavolo. Più che allungarsi, vi si sdraiò, come se lo spazio che le separava stesse per allargarsi irreparabilmente e dovesse riportarlo alle dimensioni normali prima che fosse troppo tardi. «Stai girando intorno al problema».

Jill scosse la testa «No. Stai girandoci intorno tu. Avevo preso tutte le... precauzioni capisci? E anche lui».

Daphne si tirò indietro. «Ok. Avevate preso tutti gli accorgimenti. Capitolo chiuso. Il prossimo capitolo è... » afferrò il test di gravidanza e glie lo mise davanti. «“che cosa ne faccio?”».

Il biglietto da visita finì sul bordo del tavolo. Jill lo guardò e lo lasciò lì.

«Senti... » fece Daphne allontanando il test «è solo che... vorrei che tu vedessi il vero problema».

«È tutto a posto».

«Non è che adesso mi dirai di aver trovato un cappello a punta, vero? ».

Jill si concesse un sorriso. Un po’ grigio, ma c’era.

«E poi mica devi decidere stasera. Hai ancora un po’ di mesi di tempo. Dobbiamo solo... mettere le questioni sul tavolo». Spostò il posacenere, come se fosse una di esse. I mozziconi, mezzo consumati, esalavano un filo di fumo come vulcani quiescenti.

Jill annuì. «Giusto. Una cosa alla volta. Un problema alla volta» il sorriso si rischiarò un poco. Ora aveva il colore dello sportello del frigo. Una glassa candida, con qualche macchia scura di ruggine vicino ai cardini. «Potemmo cominciare con le birre. Se vogliamo berle, direi che ci serve lo stappa bottiglie».

Daphne si alzò e andò alla cucina. Il cassetto si aprì col solito rumore ligneo e scricchiolante. Impossibile che potesse succedere qualcosa di eccezionale in un cucina dove i suoni erano quelli di sempre. Le posate fecero udire il consueto sbatacchiare di ferraglia. Daphne si sedette. Stappò le bottiglie che le restituirono uno sfrigolio frizzante carico di promesse come l’eco di una festa lontana. Bevvero a canna.

«Sai» disse Jill «io... non penso che potrei chiedergli niente. La mattina dopo se n’era andato e mi andava bene così» ridacchiò «Insomma... non ha detto nemmeno “vado a prendere le sigarette”. Ero io quella che fumava e non mi aspettavo che lo facesse. No, non interrompermi. Non mi sto giustificando. Ho imparato ad accettare la mia fallibilità. Ho imparato ad accettare... » indicò la cucina, il tavolo in formica, i pensili in compensato, il frigo di seconda mano, la lampadina che continuava a splendere «tutto questo. E poi una donna può cavarsela da sola al giorno d’oggi. Non abbiamo bisogno di un uomo accanto».

«Solo che?».

«L’hai detto anche tu. Era bravo con le parole».

«Vorresti che fosse qui, adesso?».

«Non pensare a roba del tipo “sapeva ascoltare, sapeva come parlare a una donna” e altre scemenze da soap» Annaspò con le mani come se le parole fossero sospese nell’aria insieme alle ultime tracce di fumo. «Era di più».

Smise di gesticolare e guardò la lampadina. Era davvero opaca, velata da una cortina di fumo antico e rappreso. «Era di più».

«Vorresti che fosse qui?».

Jill guardò il biglietto a terra. Lo sposò con un piede, ma non lo raccolse.

«No. È stato solo per una notte».

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