«Magari è la moneta della fortuna» disse Alfonso, rigirando tra le mani le cento lire ammaccate che, da quella mattina, ogni tanto tirava fuori dalla tasca.
Giacomo sospirò. Erano più grandi di quanto ricordasse e più sottili (buffo come la memoria ci tradisca), ma... «Sono solo cento lire» osservò.
«E allora? Non ti ho detto come le ho trovate?». 
Giacomo alzò gli occhi al soffitto della stanza come se vi leggesse un copione. «Stavi attraversando da solo la strada quando hai sentito un tintinnio metallico. Ti sei guardato in giro e non c'era nessuno. Poi hai guardato per terra ed eccole lì. Cento lire. Fuori corso da... boh. Proprio in mezzo alla strada, giusto al centro dell'attraversamento pedonale. Avresti scommesso i nostri incassi di un mese che, pochi secondi prima, non c'erano. Naturalmente, qualcuno avrebbe potuto gettarle da una finestra dei palazzi vicini, ma perché? E poi avevi sentito un tintinnio solo. Niente rimbalzi. E non s'è mai sentito di una moneta gettata da una finestra che non rimbalzi per terra almeno due o tre volte. E, ovviamente, c'è il fatto che le lire non vengono più coniate da... quando, dal 2002?»
«E quindi? Che spiegazioni hai?»
Giacomo fece spallucce. «Universi paralleli, macchine del tempo, l'uomo invisibile con un buco nella tasca dei pantaloni invisibili... ».
Alfonso gli fece una smorfia. Era lui, dei tre soci della Image Communications a progettare i castelli in aria. Giacomo procurava i mattoni per costruirli e Dario li vendeva. Quella mattina Dario era in giro per affari, per l'appunto. Solo che sopportare un creativo poteva non essere l'attività più facile di questo mondo, specie da quando il vertiginoso calo degl'incassi nel settore pubblicitario rendeva tutto meno tollerabile.
«C'è sempre la faccenda del parcheggio».
«Giusto. Giravi come una trottola da mezz'ora quando, a un certo punto, ti viene l'impulso di stringere quella moneta (perché, ovviamente, non hai potuto fare a meno di raccoglierla) e, improvvisamente... zac! Si libera un posto».
«Hai detto bene “zac!” Come per magia».
«Si chiama pensiero magico. Non è la stessa cosa».
«Ok e come la metti col gratta e vinci?».
«Hai vinto cento euro, d'accordo. Ma quanto hai speso prima di vincere? Io non la chiamerei fortuna».
«Sono solo cento lire, forse non possono fare grandi magie. E poi non la tenevo in mano quando ho preso il biglietto».
Giacomo sbuffò «Peccato – disse – avremmo proprio bisogno di magie, in questo momento».
Alfonso prese un'aria ispirata, strinse la moneta, la sollevò in alto, chiuse gli occhi e declamò «Che la Microsoft ci chiami per un contratto».
Giacomo sorrise e stava per scoppiare in un'ampia risata quando il telefono squillò.
Poi, mentre Dario parlava dall'altro capo del telefono e la bocca di Giacomo si apriva sempre di più, toccò ad Alfonso concedersi un largo sorriso.
 
«Ma ti pare il caso di baloccarti con quella moneta mentre abbiamo un'intera campagna pubblicitaria da preparare?»
Alfonso faceva girare e rigirare le cento lire tra le dita. «Si dà il caso che, se non fosse per questa, non avremmo un'intera campagna pubblicitaria da preparare».      
Giacomo appoggiò sulla scrivania le bozze dei manifesti e rivolse ad Alfonso tutta la sua attenzione. «Oh – disse – lo riferirò a Dario, questo. Chissà come sarà contento. Dici che possiamo liquidarlo, ora che i contratti ce li procura la tua moneta magica?».
«Be', non puoi negare che... »
«Cosa? Oh via... una coincidenza, molto duro lavoro e... un po' di fortuna, te lo concedo. Ma la moneta non c'entra».
«Stai negando l'evidenza».
Giacomo fece un passo verso Alfonso, le mani sui fianchi. «Sai cosa mi convincerebbe? – lo sfidò – la terza prova».
Alfonso lasciò perdere la moneta e osservò stranito il collega. «Cosa?» ripeté. 
«La terza prova. Come nelle favole. Tre è il numero perfetto, no? Esprimi il terzo desiderio e, se sarà esaudito, ti crederò. Anzi, crederò a quella maledetta moneta».
Alfonso parve esitare. «Non lo so... E poi c'è già stata la terza prova».
«Il gratta e vinci non vale, l'hai detto tu. Non tenevi in mano la moneta, quella volta. Non è così?»     
Alfonso poggiò le cento lire sul tavolo e le osservò come se, improvvisamente, ne avesse paura. «Non lo so – ripeté – ho una strana sensazione. Sarebbe come sfidare  la sorte».
Giacomo sghignazzò. «Non esiste la sorte. Come non esistono le monete portafortuna».
Alfonso agì d'impulso. Erano quegli impulsi la ragione per cui faceva quel lavoro. E anche perché si era sposato a Las Vegas con una ballerina da cui aveva divorziato dopo un mese. E perché era capace, di punto in bianco, di non salire su un aereo o di non prendere un treno. E, ovviamente, perché aveva raccolto quella moneta. L'afferrò e proclamò con voce stentorea: «Che Bar Rafaeli mi chieda un appuntamento».    
La poggiò con mano tremante e fissò Giacomo. Guardandolo, si rese conto che avevano la stessa espressione sul volto. La faccia di due artificieri che stanno disinnescando una bomba ed hanno appena tagliato il filo rosso sperando che sia quello giusto.
Il campanello della porta d'ingresso trillò.
Giacomo fece un balzo all'indietro, urtando la scrivania e facendo cadere le bozze. Anche Alfonso fece un balzo sulla sedia... poi la tensione sul suo viso lasciò il posto ad un'espressione raggiante.
Il campanello trillò ancora. 
Alfonso si alzò ed uscì dalla stanza, sempre con quell'espressione di trionfo sulla faccia.
Giacomo lo guardò attraversare il corridoio, poi rientrò in stanza e si girò  verso la scrivania.
Le cento lire erano là.
Una comune moneta ormai fuori corso, smangiata, ammaccata e con una macchia scura sul verso.
La afferrò. Era anche più leggera di quanto ricordasse. Buffo come, a volte, le cose si rivelino diverse da come eravamo convinti che fossero. Ma questo non significava certo che...
Udì la porta aprirsi e sporse la testa in corridoio, sempre reggendo la moneta.
Quando vide chi stava entrando rimase quasi senza fiato.
Quasi.
Giusto quel tanto che bastava per dire: «Che mi venga un colpo». 

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