C'era una volta, tanto, ma proprio tanto tempo fa, nella città che mi vide prima bambino e poi uomo, se mai possa esistere un'età per definirsi tale, un signore già vecchio, da quando inizio a ricordare, che vendeva il becchime per i piccioni che assediavano piazza del Duomo. Questi pennuti, che già da allora come antipasto si nutrivano di Euchessina, cagavano ovunque, imbrattando i leoni sotto il protiro della Cattedrale, sul Battistero e le persone che passeggiavano per la piazza, senza mai sbagliare un colpo. Gli unici ad essere graziati erano i sacerdoti con i quali avevano stretto un patto di non belligeranza. Quest'uomo arrivava alla mattina presto, quando l'alba, sbadigliando, colorava pigramente il cielo, apriva la seggiolina di legno e si appollaiava al fianco del chiosco dei giornali. Aveva un secchio pieno di chicchi di mais e dalle tasche scucite penzolavano i sacchetti di carta che avrebbe riempito al costo di 200 lire. Nella mia fantasia di bimbo, in bici sul sellino col babbo, questo personaggio era l'imperatore dei piccioni, non solo perché in cima al berretto ne aveva sempre uno attento come una sentinella, ma anche per il fisico e l'odore che emanava. Pensavo che, vecchio com'era, avesse subito una metamorfosi: al posto del becco la bocca e le ali ripiegate, pronte per l'uso, dentro la giacca lisa. Piccolo e tondo, non parlava la nostra lingua, ma tubava, emettendo strani incomprensibili suoni gutturali e roteando il capo come una trottola. Non era mai triste e sorrideva come fanno i piccioni emettendo un suono particolarmente acuto.

L'ultima volta che l'ho visto, all'imbrunire, volava scortato da una pattuglia di volatili, verso casa, un nido lontano lontano dove ad aspettarlo c'era la sua compagna che amava più della sua stessa vita.

 

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