I colpi si ripetevano ritmicamente riempiendo con il loro rumore il piccolo locale. Fuori, qualche lieve fiocco di neve cominciava ad imbiancare i tetti delle case vicine.

Lui non era più giovane, avrà avuto forse settant’anni.

Le mani erano piccole ma la pelle era spessa e le unghie affondavano nei polpastrelli robusti.

Muoveva la mazzetta con grazia e la sgorbia sembrava scorrere sul legno quasi con il timore di scalfirlo, con la paura di fargli del male.

Aveva trovato quel legno nel bosco poco sopra la collina in una delle prime giornate di primavera, forse la prima intiepidita da un pallido sole dopo settimane di pioggia.

Gli alberi, le piante e la terra erano profondamente intrise d’acqua e l’umidità avvolgeva tutto come una coperta bagnata.

Camminava adagio chiuso nei suoi pensieri, il fiato caldo che usciva dalle narici, pesante e denso, una mano appoggiata al bastone, l’altra attaccata alla bretella di cuoio dei pantaloni.

Improvvisamente si fermò, senza un perché.

Con il bastone mosse le foglie e lo vide.

Era nero, rugoso, profondamente avvolto nel sottobosco.

Si chinò e con grandissimo sforzo lo sollevò appoggiandolo a fatica sulle spalle. Ritornò verso casa, curvo sotto il peso di quel tronco nero.

Arrivato, non lo mise sulla catasta che fiancheggiava il muro maestro ma lo posò diritto di fianco alla porta, quasi a guardia della dimora.

Ogni volta che entrava e usciva da casa prese l’abitudine di guardare quel legno, quasi un saluto, un dialogo silenzioso nella solitudine della montagna.

Un giorno, non molto prima di Natale, uscì e raccolse il tronco come in un abbraccio.

Lo sollevò con forza e delicatezza e lo portò all’interno della casa, nella stanza più nascosta, il suo rifugio segreto e lì lo posò sul vecchio banco da lavoro.

La stanza era affollata di attrezzi, la luce fioca di una lampada che pendeva da una trave del soffitto velava di giallo ogni cosa.

Un ragno aveva teso la sua piccola tela nell’angolo della finestra e, dalla parte opposta, sulla parete a fianco alla porta, una mensola e sulla mensola, un'immagine.

Il volto di un giovane uomo, serio dai tratti eleganti che sembrava sorvegliare quel rifugio segreto.

Ogni volta che entrava il suo sguardo si posava su quell’immagine fino a riempirsene gli occhi.

Cominciò carezzando il legno con le sue mani affusolate dalla pelle grezza. Poi il primo colpo, poi il secondo, il terzo, il quarto.

E così avanti, colpo dopo colpo, senza sosta, dall’alba al tramonto, la mazzetta leggera e la sgorbia delicata tra le venature.

Le schegge si staccavano cadendo lente al suolo e lui, di tanto in tanto, si fermava e posava le sue mani su quel pezzo di legno inanimato muovendole come in una carezza, gli occhi socchiusi, il tocco lieve.

Un papà che sfiora il figlio dormiente.

Alzava lo sguardo verso quel volto giovane che, dalla mensola, lo osservava e subito riprendeva a picchiare riempiendo la stanza degli ottusi rintocchi.

Era giunto il momento.

Posò la mazzetta e la sgorbia e da sotto il banco prese un panno intriso di cera.

Pian piano cominciò a farlo scivolare, lentamente, su ogni punto, seguendo la superficie con leggerezza in una infinita ed interminabile carezza.

Respirava piano, quasi a non voler disturbare, ma non era capace di staccare le mani da quel legno.

Le labbra socchiuse in un discorso trattenuto, il corpo proteso in un abbraccio non iniziato.

Si fermò, prese il drappo rosso che aveva custodito in una vecchia scatola e coprì il Cristo con delicatezza.

Si girò, sfiorò l’immagine sulla mensola, spense la luce e chiuse piano la porta.

 

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