Atterrammo a Punta Raisi in perfetto orario. Ci trasferimmo in un albergo situato in pieno centro e, dopo aver pranzato, la guida ci diede appuntamento per le 17 davanti alla hall.

 

La gola mi ricordò che lì, sull'isola, sfornavano dolci tra i più saporiti del pianeta e granite più famose del commissario Montalbano. Subito adocchiai una pasticceria che provocava i sensi anche a distanza. La stagione era propizia e non avevo bevuto il classico espresso di fine pasto poiché già un piano mi gironzolava nella testa: aveva la forma e i colori di una granita al caffè.

 

"Desidera anche la panna?"

 

"E certo!"

 

E sopra la panna il giovanotto ci posò alcuni chicchi di arabica che rendevano quella leccornia un'opera artistica degna del miglior Arcimboldo.

 

Alle diciassette in punto raggiunsi il gruppo davanti alla hall dell'albergo. Riconobbi Eusebio più largo che lungo, già sudato prima della camminata prevista. E anche la signora Delfino con un cappello più largo di un sombrero. Le scarpine calzate, poco adatte alla passeggiata che ci attendeva, ostentavano due fiocchetti beige simili a due libellule posate sui piedi. Eusebio e la Delfino li avevo conosciuti durante una breve vacanza alle Eolie organizzata dalla stessa compagnia. Spostai l'attenzione sulla biondina che già scattava foto a destra e a manca. Di nome faceva Ludmilla subito accorciato in Ludy dalla guida anche se, di sangue anglosassone, Ludmilla non ne aveva nemmeno una goccia. Era di Badalucco.

 

Tutto bene? Oh sì , certo. Almeno fino a tarda sera passata ad ascoltare il gruppo dei Pecblenda ai Quattro Canti, un incrocio al centro del centro di Palermo dove artisti di strada e musicisti si esibivano mentre leccavo un gelato al pistacchio di Bronte.

 

Anche la notte passò tutto sommato tranquilla, nonostante la coppia che occupava la stanza con pareti di carta velina adiacente alla mia.

 

"Mauro io qui non ci dormo, questa stanza è claustrofobica..."

 

"Non è la reggia di Caserta ma se spegni la luce e immagini di essere a Trafalgar Square..."

 

"Mauro non fare lo spiritoso. E poi, non hai visto il ragno che c'è sopra il cassonetto del bagno? Ma dove siamo capitati? In Africa?"

 

"Beh... Non siamo poi così lontani. Lascialo vivere un'ultima notte di inconsapevole felicità. Poi domani mattina... C'ho già qui la ciabatta".

 

"Ma che schifo! Sei proprio rozzo e così pigro che... alzarti dal letto adesso proprio no, eh?"

 

Accesi la tivù e mi lasciai coinvolgere in una indagine del tenente Colombo girata un secolo fa.

 

Ma la mattina seguente...

 

Il programma prevedeva una visita al mercato di Ballarò raggiunto a piedi in 15 minuti scarsi. Sfortunatamente, un disturbo improvviso dovuto ai cannoli ingoiati di fretta con il cappuccio bollente bevuto a colazione, mi costrinse a tornare in albergo.

 

Poco dopo ripercorsi a ritroso la strada per Ballarò seguendo le istruzioni di Google Maps senza sollevare la testa dal display.

 

Male, molto male. Devi sempre guardare dove ti portano le scarpe.

E così, dopo aver inforcato la strada sbagliata, mi ritrovai come direbbe il poeta in una selva oscura, spaventosa. Una donna dal volto emaciato, seduta sopra un lurido materasso mi guardava inebetita. Aveva la schiena appoggiata ad un muretto e le gambe infilate in un sacco a pelo, lercio.

Uno scricchiolio spostò la mia attenzione sul selciato: avevo calpestato una siringa che, come altre, giacevano abbandonate in ogni angolo di quel frammento di mondo più angosciante dell'inferno.

Affianco a lei un uomo vestito di stracci e più secco di un chiodo armeggiava con un accendino e una cannuccia infilata in una bottiglia. Era lucido e nello sguardo si leggeva chiaramente una domanda più che scontata: e tu, che cazzo ci fai qui?

Sentivo la paura riempirmi la pancia. Altri individui rientrarono nel mio campo visivo e già sentivo le loro mani frugare nelle mie tasche, i loro calci spappolare i miei testicoli. Già li vedevo sfilare dal mio portafoglio le banconote appena prelevate: centocinquanta euro freschi di zecca. E poi... Minchia! Avevo un iPhone tra le mani, com'è che ancora nessuno me lo aveva strappato dalle dita per farci qualche dose di crack?

 

Incrociai lo sguardo di un tale con la barba incolta, senza scarpe. La canottiera infilata in qualche modo nelle mutande che sbucavano da un paio di jeans devastati. Aveva un coltello serrato in una mano e nell'altra una confezione di wurstel intonsa.

Dove avrebbe affondato la lama? Nell'involucro per liberare i salsicciotti o tra le mie viscere?

Optò per i wurstel e io ringraziai la Santuzza (Rosalia) per la grazia ricevuta.

Dovevo solo arrivare al termine della stradina, cento metri ancora e la vita poteva continuare.

Nell'imbarazzo più totale, con la mia camicetta pulita e il Sauvage che ancora liberava un delicato profumo di limone percorsi quei metri come in attesa di morte certa. Dove sarebbe arrivato il colpo? Sulla testa? Allo stomaco? E se avessi lasciato portafoglio, orologio e catenina lì, senza spiaccicare parola, avrei portato a casa la pelle?

Non successe nulla. Anzi, passai una giornata meravigliosa affascinato dai colori e dai profumi di un mercato che da solo vale la pena del viaggio in Sicilia. Un luogo che non si può descrivere e di cui non vi racconto nulla. Andateci e basta, ma senza sbagliare strada.

 

Finalmente incrociai il gruppo. Alla signora Delfino si era rotto un tacco delle scarpine che calzava, quelle con il nastrino beige. Ludy stava gustando ad occhi semichiusi un arancino a forma piramidale che colava sugo sulla sua camicetta bianca, ancora candida. La signora della stanza accanto si tappava il naso un momento si è l'altro pure.

 

"Mauro, ma non la senti questa puzza di pesce? È insopportabile...”

 

Tornai felice in albergo. Vivo.

Per la cena erano previste due specialità del posto: lo sfincione e il purpo vegghiuto: non avanzai nulla. Di più. Per terminare come si conviene ripulii con un boccone di pane il piatto del purpo, del polpo, che poi luccicava come appena estratto dalla lavastoviglie.

Mi trattenni dal chiedere alla signora della stanza accanto la sua porzione di sfincione, una specie di pizza locale che a suo dire era troppo unta e difficile da tagliare. Ma non osai e quella squisitezza rimase lì, nel piatto, orfana di un gesto semplice. Semplice come portare il cibo alla bocca con quelle mani che nostro Signore ci ha donato per gustare ogni bene. Amen.

 

Ripartimmo per Milano. Lo spavento provato al mercato del crack si era trasformato un'infinita pena sofferta per tutte quelle anime, molte giovanissime, incappate nella tragedia della tossicodipendenza. Pur consapevoli della loro condizione non hanno forze per opporsi allo strapotere del crack. Osservano impotenti la dissoluzione del loro corpo in attesa di una dose per l'ennesimo, esplosivo attimo di felicità artificiale.

 

Atterrammo a Linate. Indossavo una polo nera appena acquistata e il Sauvage spruzzato sul collo liberava un delicato profumo di limone.

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