Ovviamente le manovre amorose non potevano sfuggire agli occhi attenti dei paesani, così le comari cominciarono a mormorare durante le riunioni serotine sull’uscio di casa, mentre gli uomini - più impertinenti e anche invidiosi - affermavano che la Sabina, a füria d’rapulà, a forza di spigolare, aveva trovato la pannocchia che faceva per lei.

Tutto questo finchè non fu chiaro alla schiera dei mormoratori che non si trattava del solito amorazzo di fine estate, ma di qualcosa di ben più serio. Apriti cielo! Ma come, la più bella ragazza del paese, che aveva l’unico difetto di aver per padre un disgraziato, corteggiata dai migliori partiti, figli di padrùn e di commercianti, che perdeva la trebisonda per un foresto? Anzi, diciamola tutta, per il fiö d’un terùn?! Urgeva prendere provvedimenti e avvisare la famiglia della svaporata. Così una sera la piccola delegazione dei soliti amici (amici?) di osteria del Gasparìn si prese la briga (e di certo il gusto) di mettere al corrente lo sfortunato genitore; il quale, com’era prevedibile, montò su tutte le furie, sbuffò fuoco dalle narici e inveì contro la scempiaggine della figlia, la quale potendo scegliere tra cotanti figli di notabili - si fa per dire - che avrebbero fatto con i loro soldi la fortuna e la sicurezza di lei e della sua famiglia (pensiero ovviamente alquanto interessato, da parte del Nansitùt), si andava a perdere dietro un teremutàt, un scapà da cà, un beduino!

 

Cominciò per Sabina una dolorosa clausura, fatta di lunghi pianti nascosti e aperte implorazioni, di fronte alle quali il cuore di Gaspare – al pari di quello del Faraone di Mosè – divenne pietra; il tempo avrebbe fatto in modo che la figlia snaturata mettesse la testa a partito, altro che! L’innamorato intanto chiedeva inutilmente udienza al padre-padrone, mentre veniva apertamente osteggiato (traviatore di fanciulle!) dalla combriccola dei paesani mormoranti. Si rivolse anche al prevosto suo amico, il quale però gli disse che, essendo la ragazza minorenne, nulla si poteva contro la volontà del genitore.

Passò così l’inverno, ma il sopore che la stagione fredda inevitabilmente portava non bastò a placare i sentimenti, che risorsero più forti di prima a inizio primavera; Sabina e Ercole erano alla disperazione, consumati da amore reciproco quanto e più di prima. Fu giusto alla fine di Marzo che avvenne lo storico fattaccio: il giovane rapì la sua morosa e se la portò via, senza lasciare traccia.

 

Non si capì come avvenne la cosa; neanche i carabinieri, convocati dalla stazione del vicino paese, ci si raccapezzarono. Sabina viveva praticamente come in galera, chiusa a chiave durante la notte, guardata a vista e con divieto di uscire oltre il cortile della cascina durante il giorno. La chiave della sua stanza era conservata dal padre, e non ne esistevano doppioni.

Una notte qualcuno (Ercole?) riuscì a introdursi a casa dei Ghisio, rubare la chiave dal taschino delle brache di Gaspare, uscire dalla stanza di questi e bloccarne la porta dall’esterno con un paletto, aprire quella della camera di Sabina, prendere la ragazza e con lei fuggire – di sicuro attraverso i campi – senza farsi vedere da nessuno. I due fratelli di Sabina confessarono di non essersi accorti di nulla, mentre Gaspare asserì di aver sentito qualche rumore, ma di non averci dato peso (in realtà smaltiva una sbornia e non aveva avuto la forza di alzarsi, prima di riaddormentarsi come un sasso). Furono diramate ricerche nei dintorni (dove mai avrebbero potuto andare, Dio buono!, quei due sconsiderati?) ma senza alcun risultato; si incominciò a sospettare dei genitori di Ercole e perfino del prete, quali complici o addirittura occultatori dei due fuggitivi. Cosimo e Giuseppina giurarono e spergiurarono di non saperne nulla, mentre il parroco inveì contro i sospettatori: “Ma come vi viene in mente che un sacerdote possa farsi tirare dentro in una cosa così, razza di malelingue?!” Alla fine lui venne lasciato in pace, mentre i due poveri genitori no, tanto che - dopo qualche tempo – furono costretti ad andarsene dal paese per quieto vivere.

Intanto il tempo passava, e dei due giovani non si seppe più nulla. I compagnucci di Gaspare, dopo l’iniziale solidarietà all’amico (amico?), cominciarono a fare dell’ironia – il Nansitùt che si fa rubare la fiöla da sotto il naso, che pirla! – mentre l’oggetto dei loro lazzi schiattava dalla rabbia e malediceva il nome della figlia che lo aveva svergognato di fronte a tutti. Poi anche il gusto dello sfottò si perse, e tutti cominciarono a dimenticare. La vita di tutti i giorni riprese il suo ritmo sonnacchioso ma implacabile, dopo qualche anno l’episodio diventò solo una virgola nelle pagine della storia recente del paese.

Di Ercole e della sua famiglia ci si dimenticò, come già detto, anche il cognome.

 

Ai giorni nostri il paese è gattopardescamente cambiato per rimanere uguale a prima. Certo si è ingrandito, anche se il numero degli abitanti, tra flussi e riflussi, è rimasto pressappoco lo stesso. A guardare bene vedreste che il paesaggio agricolo è mutato: oggi c’è molto più riso rispetto al mais, e gli alberi sono disperatamente più rari. I campi prossimi alle case, che una volta venivano tenuti a foraggio, si sono via via trasformati in terreni edificabili, dove sono nati gli inevitabili complessi residenziali di villette singole e a schiera; altre case che una volta si trovavano quasi in aperta campagna fanno ora parte della immediata periferia. Una di queste è la cascina dei Ghisio, ancora di proprietà della famiglia. Ha subito diverse ristrutturazioni nel tempo, diventando un rustico ben tenuto, quasi elegante con il suo patio sul davanti e il giardino piantumato. Ci vivono Augusto con la figlia maritata, il genero e due nipotini; Romolo, il fratello maggiore, emigrato in Germania all’inizio degli anni ’60, si fece lì una famiglia e lì fu seppellito quando venne la sua ora, senza mai più mettere piede nel paese natale. Proviamo a fare una piccola irruzione dentro casa, ma in silenzio, che è l’ora della siesta.

Augusto si è ricavato un appartamentino al pianterreno nell’ala della cascina dove una volta si trovavano il fienile e la stalla: ci sono un salottino e un cucinotto, la camera da letto e il bagno, tutto arredato con vetusti e massicci mobili che farebbero la gioia di un’appassionato della cosiddetta “arte povera”. E’ seduto sulla sua poltrona preferita e, come succede di solito, si è appisolato con il giornale in grembo. Il tempo è stato gentile con lui, è ancora un uomo in gamba nonostante gli anni. Facciamo piano, dobbiamo guardare nel primo cassetto della credenzina sulla parete di destra. Ecco qua, ci sono fotografie, cartoline, ricevute, documenti vari - briciole di vita – e, guarda un po’, un fascio di lettere, alcune relativamente recenti e altre molto più vecchie. Prendiamo la prima, ingiallita dagli anni, e leggiamo:

 

“Pizzo Silano, 28 Aprile 1956.

 

Carissimi fratelli,

scusate se vi do mie notizie solo adesso, ma il viaggio per arrivare qui è stato molto lungo. Vi scrivo come mi avete chiesto, fermo posta al paese vicino, così nostro padre non vede la lettera. Io e Ercole stiamo bene, i suoi parenti quaggiù ci trattano come un re e una regina, ci hanno fino dato i loro letti per dormire e loro dormono negli stanzini coi materassi per terra. Ho già fatto amicizia con le cugine di Ercole, sto per adesso a casa loro, mentre lui sta a casa di un altro suo zio. Tra due mesi, quando divento maggiorenne, ci sposiamo e andiamo ad abitare in una casa che adesso è vecchia ma Ercole e suo zio e i suoi cugini stanno lavorando duro per metterla a posto. Avvisate per piacere anche mamma e papà di Ercole, poverini staranno in pensiero che non sanno dove siamo finiti. Ercole spera che torneranno a stare qui, dopo che li abbiamo avvisati. Qui si lavora la campagna come da noi, anche se è diverso perché non c’è la meliga e il riso ma il grano, le olive e i frutteti. E’ dura ma non ci manca niente e siamo contenti, Ercole e io vogliamo ringraziarvi per l’aiuto che ci avete dato, quella sera che siete venuti ad aprire la porta della mia stanza per dirmi che dovevo prepararmi per scappare con lui non ci credevo, mi sembrava troppo bello. E grazie anche per tutti i soldi che ci avete dato, non pensavo che avevate da parte tutti quei risparmi, quanti sacrifici avete fatto per finire di regalarli a noi, non finirò mai di ringraziarvi. Qui la gente è brava e noi siamo felici, spero anche voi di saperlo. Spero anche di darvi altre notizie al più presto anche se non sono brava a scrivere come sapete.

Vi abbraccio forte forte e vi voglio bene.

Sabina.”

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