Milano di notte non è come la conosce chi la attraversa di giorno, chi la percorre di corsa con l'ansia di tornare a casa. Di notte, Milano si spoglia, si denuda del suo falso perbenismo e lascia intravedere le sue viscere, la carne viva di una città che non smette mai di sanguinare. Ed è proprio lì, in quelle viscere, che mi ritrovai, a vagare senza una meta precisa, guidato solo dal bisogno di sentire qualcosa di vero, qualcosa che mi facesse uscire dalla nebbia che mi avvolgeva.

Camminavo in vicoli stretti, sporchi, dove l’aria era satura di marcio, di piscio, di disperazione. Fu lì che le vidi, le donne perdute. Non erano le solite facce da strada, quelle che si incontrano anche in centro, con i loro sorrisi finti e le luci al neon che le illuminano come puttane di un nightclub fallito. No, queste erano donne vere, carne viva, distrutta dalla vita, dai traumi, dalla merda che il mondo aveva scaricato su di loro.

Erano di tutte le età, ma non sembrava importare. Le più vecchie portavano addosso le cicatrici di una vita passata a lottare: segni profondi sulle facce scavate, sui corpi che un tempo dovevano essere stati attraenti ma che ora erano solo pelle e ossa, muscoli stanchi, vene bluastre che spuntavano come mappe di una sofferenza cronica. E poi c'erano le più giovani, alcune così piccole che avresti giurato non fossero nemmeno uscite dall'infanzia. Occhi spalancati, troppo grandi per i loro volti ancora infantili. Occhi che avevano visto troppo, subito troppo.

Non so cosa mi spinse ad avvicinarmi. Forse la curiosità, forse la voglia di affondare ancora di più in quella merda in cui già mi sentivo immerso. Loro mi guardarono, alcune con sguardi di sfida, altre con un misto di rassegnazione e stanchezza. Ma non mi allontanarono. Anzi, mi accolsero, come si accoglie un cane randagio che si trascina fino alla tua porta, affamato e senza meta.

Non ci furono parole dolci tra di noi. Non ce ne fu bisogno. Mi offrirono quello che avevano: una sigaretta stropicciata, una bottiglia di vino economico che girava di mano in mano, un tocco rapido e senza calore. Alcune si avvicinarono e mi offrirono i loro corpi, ma non c’era nulla di seducente in quei gesti. Era una meccanica crudele, un’abitudine che aveva perso qualsiasi parvenza di piacere. Corpi segnati, violati, con le cicatrici di chi è stato usato e gettato via come spazzatura.

Uno di quei corpi, quello di Elena, era ancora in buono stato, ma nei suoi occhi si leggeva che dentro era già morta da tempo. Mi raccontò la sua storia come si racconta una storiella di poco conto. «Avevo un marito, una casa, una vita. Poi è morto, tutto è andato a puttane, e mi sono ritrovata qui.» Lo diceva senza enfasi, come se stesse parlando di qualcun altro, come se il suo corpo non fosse più suo da anni. I suoi seni, un tempo pieni, erano ora flosci, appesantiti dal peso di un mondo che non aveva mai smesso di calpestarla. La sua pelle, tesa e giovane un tempo, era ora un quadro di vene e lividi, segni di un corpo che aveva smesso di lottare.

Lucia, poco più che ventenne, era un’altra di quelle anime perdute. Aveva il corpo di una donna, ma gli occhi di una bambina che non aveva mai conosciuto altro che dolore. «Sono nata in questo schifo,» mi disse, tirando su col naso, con il trucco colato che le segnava il viso come lacrime di sangue. «Venduta da mia madre per una dose, passata di mano in mano finché non sono finita qui. E non c'è mai stata una via d'uscita, mai.» Aveva lividi freschi sulle braccia, sulle cosce: segni di mani che l’avevano stretta troppo forte, troppo a lungo. Guardandola, mi sembrava di fissare il fondo di un pozzo senza fine. La cosa peggiore era sapere che non aveva mai conosciuto altro che quel pozzo.

E poi c’era Anna, la più giovane di tutte, appena sedicenne, con i capelli neri arruffati e gli occhi che sembravano due buchi neri. Non parlava molto, ma quando lo faceva, la sua voce aveva un tono di disperazione che ti faceva male al petto. «Sono stata portata qui da mio zio,» mormorò. «Mi ha detto che avrei avuto un lavoro, una vita migliore. Ma tutto quello che ho trovato è stato l'inferno.» La sua pelle era liscia, ancora giovane, ma portava i segni di un corpo troppo spesso violato. Le mani, sottili e fragili, tremavano leggermente mentre parlava, come se non riuscisse a controllarle.

Quella notte mi sedetti con loro, ascoltai le loro storie, bevvi il loro vino scadente e fumai le loro sigarette stantie. Non c’era nulla di nobile in quello che facevo, niente di altruista. Stavo lì perché avevo bisogno di sentire qualcosa di più reale, più tangibile della mia stessa esistenza. E loro, con i loro corpi distrutti e le loro anime lacerate, mi davano quel senso di realtà che cercavo.

Non cercai i loro corpi, anche se alcune di loro, nonostante tutto, avevano ancora qualcosa di desiderabile. Non era quello che volevo. Volevo solo ascoltare, capire, forse sentirmi meno solo nel mio stesso vuoto. E loro mi diedero quello che avevano: le loro storie piene di dolore, di traumi, di violenze che avrebbero spezzato chiunque. Ma loro, in qualche modo, erano ancora lì, aggrappate a una vita che le aveva lasciate in frantumi.

Quando il sole iniziò a sorgere, sapevo che dovevo andare. Le ringraziai, anche se quelle parole suonavano vuote nelle mie orecchie. Sapevo che non sarei mai stato lo stesso. E forse, in un modo perverso, ero grato per questo. Avevo molto di cui scrivere, e quelle storie, quelle vite devastate, sarebbero rimaste con me: nei miei pensieri, nelle mie parole. Anche se sapevo che non avrei potuto cambiarle, almeno avrei potuto raccontarle. Avrei potuto dar loro una voce, anche se solo sulla carta.

 

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