Era una di quelle serate fredde, con l'aria che taglia la pelle come piccoli coltelli, quando incontrai Lucia di nuovo. Non l'avevo mai dimenticata, come avrei potuto? Ma non mi aspettavo di vederla lì, in piedi fuori da una stazione della metropolitana, gli occhi vuoti e il corpo avvolto in una giacca troppo leggera per quel gelo. Sembrava persa, una delle tante anime che vagano senza meta, cercando di sopravvivere a un altro giorno.

Mi avvicinai e, quando mi vide, i suoi occhi si riempirono di un misto di sollievo e incredulità. Non ci furono molte parole, non ce n'era bisogno. Le presi la mano, fredda come la pietra, e la portai a casa mia. Non c’era altro da fare, niente di più giusto.

La mia topaia non era molto, ma era meglio della strada. Lucia non fece domande, non disse nulla. Si lasciò condurre, come un fantasma che non ha più nulla da perdere. Appena arrivati, la feci entrare in bagno, le diedi un asciugamano e un cambio di vestiti che avevo trovato da qualche parte: roba vecchia, ma pulita. «Fai una doccia calda,» le dissi. «Prenditi tutto il tempo che ti serve.»

Restai fuori, ascoltando l’acqua scorrere per quella che sembrò un’eternità. Quando finalmente uscì, i suoi capelli ancora bagnati e il vapore che la circondava come una nebbia sottile, sembrava una persona diversa. Ma i suoi occhi, quegli occhi che avevano visto troppo, erano gli stessi.

Le preparai un pasto caldo, qualcosa di semplice, ma lei mangiò come se fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto. Era affamata, non solo di cibo, ma di calore, di umanità.

Dopo cena, ci sedemmo sul vecchio divano sformato che avevo trovato anni prima. La guardai e le chiesi delle altre. Non sapevo nemmeno perché lo stessi facendo, ma c’era qualcosa che mi spingeva a sapere.

«Stanno tutte bene,» rispose, la voce bassa, quasi un sussurro. «Tranne Elena... è in ospedale. Il suo fegato... la cirrosi l'ha presa.»

Sentii un peso nel petto. Non ero mai stato amico di Elena, ma avevo ascoltato la sua storia, avevo visto la sua vita ridursi a una serie di tragedie senza fine.

«Andiamo da lei,» dissi, senza nemmeno pensarci.

Lucia annuì, e ci vestimmo in silenzio, preparandoci per quello che sapevamo sarebbe stato un incontro difficile.

L’ospedale era freddo e impersonale. L'odore di disinfettante e malattia impregnava l'aria. La trovammo in una stanza spoglia, sola. Giaceva su un letto che sembrava troppo grande per il suo corpo emaciato. Era un’ombra di sé stessa: il volto tirato, le guance incavate, gli occhi spenti. Ma quando ci vide, il suo sguardo si accese di una luce che non avevo mai visto prima.

«Rocco... Lucia...» La sua voce era debole, rotta, ma c’era gratitudine in ogni parola. Ci prese le mani, le sue erano fredde, ossute, e io sentii una stretta al cuore.

«Grazie per essere venuti,» disse, e le lacrime iniziarono a scendere lungo le sue guance scavate. 

Non sapevo cosa dire. Non c'era nulla da dire. Sentii un nodo in gola, ma lo tenni a bada, per lei, per Lucia che mi guardava con gli occhi pieni di dolore.

Elena si girò verso di me, con un’espressione che non dimenticherò mai. «Scrivi la mia storia, Rocco,» mi disse, con un filo di voce. C’era una supplica, una disperazione che mi trafisse. Non potevo rifiutare, non potevo voltarmi dall’altra parte.

Presi il mio taccuino – lo portavo sempre con me – e mi sedetti accanto a lei. Lucia si mise vicina, in silenzio, le sue mani che tremavano leggermente.

Elena iniziò a raccontare. Parlava della sua infanzia, dei sogni che aveva avuto, di come tutto fosse andato a rotoli, di come l’alcool fosse diventato il suo rifugio, il suo amante crudele che l'aveva portata su quella strada. Ogni parola era una ferita aperta, ogni frase un colpo al cuore. Scrivevo e sentivo le lacrime che mi bruciavano gli occhi, ma non mi fermai. Dovevo finire, dovevo catturare ogni dettaglio, ogni pezzo della sua vita.

Quando finì, nella stanza cadde un silenzio carico. Elena era esausta, ma c’era una pace sul suo volto che non avevo mai visto prima.

«Grazie,» mormorò, mentre le sue palpebre si chiudevano lentamente.

Lucia e io ci alzammo, sapendo che quello sarebbe stato l’ultimo addio. Tornammo a casa in silenzio, il peso di quella serata gravava su di noi come una cappa di piombo.

Entrati, ci guardammo negli occhi, e senza dire nulla, iniziammo a spogliarci. Non c’era lussuria nei nostri gesti, solo un bisogno disperato di sentirci vivi, di trovare conforto nel calore dei nostri corpi.

Ci mettemmo a letto, i nostri corpi si cercavano e si trovavano. Il sesso quella notte era diverso, carico di una tristezza che si rifletteva in ogni tocco, in ogni gemito soffocato. Non c’era piacere puro, solo una connessione profonda, un tentativo di scacciare la solitudine e il dolore che sentivamo dentro.

Mentre facevamo l’amore, sentii le lacrime di Lucia scivolare sul mio petto, e mi resi conto che stavo piangendo anch'io. Erano lacrime calde, lacrime che lavavano via tutto, anche solo per un momento. Ci stringemmo l'un l'altra come se fossimo l’unico rifugio rimasto, e ci aggrappammo a quella sensazione, sapendo che era tutto ciò che avevamo.

 

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