In una notte d'estate di circa vent'anni anni fa, dal momento che non riuscivo a dormire, accesi la TV del soggiorno e mi misi a cazzeggiare con il telecomando alla ricerca di qualcosa di interessante, standomene sbivaccato sulla poltrona reclinabile, a torso nudo e con addosso un paio di boxer. Si erano fatte le tre e, dopo tantissimi zapping, mi sintonizzai in un canale privato che trasmetteva uno stuzzicante lungometraggio erotico di produzione francese.
«Minchia!» esclamai tra me e me, e inumidendo le labbra da adolescente allupato, dalla manovella sempre pronta. Non per niente, un mio compagno di scuola di allora, mi chiamava Segaiolman, un soprannome che non ritenni dispregiativo, al punto di identificarmi in un supereroe e nell'immaginarmi una S sul petto, tipo Superman.
Non appena mi fui assicurato che la porta del salone fosse chiusa, estrassi dalla tasca laterale un pacchetto di fazzoletti e mi abbassai i pantaloncini.
Ancora oggi ricordo con nitidezza alcune sequenze hot di quel film libidinoso: in un letto d’albergo, c’era una bonazza dai capelli neri a caschetto dalla frangia sexy, che si prodigava a cavalcare appassionatamente un marcantonio che le toccava e le succhiava le tette, piccole ma ben proporzionate.
Nel mentre tiravo su e giù lo sventrapapere, proprio sul più bello, udii il rumore della maniglia della porta. In maniera goffa, sollevai i boxer, e con il telecomando, pigiai un tasto a caso, finendo in un canale di televendite dove un tizio reclamizzava a gran voce dei tappeti persiani.
A passo lento, entrò mio padre, che si incamminò in direzione del tavolo da pranzo per prendere l’accendino, le sigarette e gli occhiali da vista. 
Mi ritrovai così in una posizione po' buffa, ovverosia non più disteso ma seduto ingobbito, tenendo la gamba sinistra a terra per nascondere con il piede scalzo il pacchetto di fazzoletti, quella destra sul poggiapiedi, il telecomando adagiato sulla patta gonfia e le braccia arcuate appoggiate sui braccioli. Finsi di sbadigliare e cercai di guardare lo schermo con aria annoiata, difatti speravo che mio padre, per dirla alla toscana, non avesse capito... una sega di in che cosa mi stessi cimentando mezzo minuto prima.
«T'accatari un tappitu? (Ti devi comprare un tappeto?)» mi chiese il babbo in dialetto messinese con un'espressione sorniona, piazzandosi di profilo davanti all'apparecchio televisivo.
«Mah… sai… quasi quasi...» farfugliai.
«Occhio però, perché dovrai prestare attenzione a non macchiarlo» mi disse annuendo divertito e se ne andò accendendosi una sigaretta.
In quel preciso istante, desideravo per davvero un tappeto. Un tappeto volante per l'esattezza, per scappare lontano assieme al mio imbarazzo.

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