Erano tutte elaborate: non c’era Vespina 50 che non avesse qualche archibugio nel motore in grado di garantire qualche km/h in più.

Poi era obbligatorio salirci in due, con una zavorrina preferibilmente, perché le distanze si annullavano e si cominciava a prendere confidenza con le forme femminili (e anche perché il peso sul posteriore facilitava l’impennata se eri scarso di potenza).

A volte, come su Furia cavallo del West, si stava anche in tre, con i vigili che ti guardavano e dicevano: “Passi due, ma anche in tre adesso? Dai ragazzi…”

C’erano diversi gradi di elaborazione che dipendevano dalle tasche, ma anche dal coraggio e capacità di dominare fino a 15-20 CV su ruote poco più grandi di quelle del carrello della spesa. Tutto questo con un unico scopo: arrivare al bar rombanti e impennati, illudendosi di catturare così l’attenzione delle ragazze che lì sostavano. Naturalmente i diversi livelli di “pompaggio” motore venivano scalati uno alla volta partendo dal gradino più basso, un po’ come nei videogames odierni.

 

Dilettante

Il mercato offriva a piene mani cilindri 75 cc con tre, quattro o più travasi; Pinasco, Polini e Malossi lottavano col coltello commerciale fra i denti per contendersi ventimila lire dei nostri sudati risparmi; cambiavi poi i getti del carburatore e sfioravi tranquillamente i 70 km/h, qualcosa in più se avevi altre trentamila lire per uno scarico a siluro possibilmente cromato.

 

Professionista

La cilindrata saliva a 102 cc e nuovo carburatore Dell’Orto 19, esborso totale attorno alle settantacinquemila lire; arrivavi a 80 km/h e tiravi su facile la ruota davanti anche in seconda e senza zavorrina.

Unico difetto è che grippavi dopo i primi 10 km a manetta.

Urgeva cambiare allora i rapporti con campana e pignone a denti dritti: al rombo del motore si aggiungeva un fischio, la velocità superava i 90 km/h, ma d’impennate neanche parlarne, a meno di non conoscere la tecnica del rimbalzo, che consisteva nell’alzarsi in piedi sulle pedane e poi lasciarsi cadere col culo sulla parte posteriore della sella tenendo saldamente le mani sul manubrio con braccia rigide.

Era il principio della leva di Archimede, con fulcro sulla ruota posteriore: almeno quello che studiavi trovava un senso.

 

Delinquente

Se avevi trecentocinquantamila lire e pelo sullo stomaco, il mercato “parallelo” offriva motori Primavera o ET3 di dubbia provenienza, anzi certa: tutti avevano il numero di serie limato.

La fregatura era dietro l’angolo perché il motore lo acquistavi da personaggi borderline che giuravano fosse appartenuto al sior Mario che usava la Vespa solo il giovedì per andare al mercato: due pieni e dovevi rifare il motore con altre duecentomila lire che evaporavano.

Si diventava così ricettatori, e quindi malviventi, però alla fine avevi un 125 che ti proiettava a pie’ pari nel mondo delle moto vere, con potenza adeguata per scarrozzare zavorrine che cominciavano a mettere qualche chilo sui punti giusti.

 

Pazzo furioso

Dovevi già avere il motore Primavera o ET3 e quindi la fedina penale potenzialmente sporca; se poi per i livelli precedenti ti potevi arrangiare con un minimo di attrezzi, qua serviva l’amico competente per barenare il carter così da montare albero e biella adeguati a gruppo termico di cilindrata paurosa; poi un bel Dell’Orto 24 completava l’opera.

Il rischio era altissimo, perché se l’amico aveva millantato capacità meccaniche inesistenti, dovevi buttare tutto, ma se per grazia divina andava dritta, ti ritrovavi con un caccia F-18.

Certo, quando dovevi frenare ti votavi a Padre Pio, che però non faceva mancare quasi mai la sua benevola protezione.

E senza accorgerti eri arrivato ai 18 anni: le quattro ruote di una FIAT 127 avevano il sopravvento e inconsciamente svendevi quattro anni di felicità a poche lire, per poi ricomprarli trent’anni dopo dando in permuta un rene.

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