Non bussò.
Arrivò un pomeriggio d’estate, con il ronzio gentile di chi non vuole disturbare. Entrò dalla finestra del balcone, come se conoscesse la strada, e si posò leggera dentro una mensola alta, nascosta tra vecchi libri, fotografie storte e una tazzina spaiata.

Era una vespa.

Non fece rumore, né paura. Si fece piccola e sparì in quell’angolo dimenticato, come fanno certi pensieri che tornano solo quando li chiama il silenzio.

Il giorno dopo riapparve, puntuale come una domanda che non si osa fare. Volteggiò verso la luce, batté con l’istinto contro il vetro chiuso, e allora io — che avevo osservato tutto — mi alzai, aprii la porta e la lasciai andare.
Fu così che cominciò.

Ogni giorno tornava.
Sempre nello stesso punto.
Sempre nella stessa mensola.
E sempre, alla stessa ora, si fermava davanti alla porta, come per dire:
“Se non ti spiace…”.
E io le aprivo.

Non era amicizia, né abitudine. Era un patto silenzioso, una specie di poesia fatta di movimenti minimi: un’ala che freme, una maniglia che gira, un battito che si regola sul tempo di un altro essere vivente.

Ma io lo sapevo.
Lo capivo da come lei rimaneva sempre un po’ di più, da come si muoveva tra gli oggetti, da come la sua presenza aveva un peso diverso: stava costruendo.
Un nido.

Un giorno, quando lei non c’era, salii sulla sedia, scrutai tra le ombre della mensola e vidi quella piccola architettura sospesa — una cupola di carta e pazienza.
Bellissima. Pericolosa.

Rimasi a guardarla.
Poi decisi.

Il gesto fu lento. Gentile, perfino.
Staccai il nido, lo avvolsi in un fazzoletto e lo lasciai scivolare giù dal balcone, verso il prato.
Forse un addio. Forse una protezione.

Lei tornò il giorno dopo.
Entrò, cercò, volò in tondo.
Non trovò nulla.

Fece qualche giro confuso, poi si fermò proprio davanti a me.
Non ronzava. Non fuggiva.
Era solo lì.
L’assenza tra le ali.

Allora io capii.
Aprii la porta.

Lei uscì senza guardarsi indietro.

E non tornò più.

Resta solo un piccolo silenzio, proprio lì dove il suo nido era stato.
Un vuoto che non fa rumore,
ma ogni tanto lo sento respirare.
E mi chiedo se avesse capito.
Se mi avesse perdonato.

 

 

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