Il muro della chiesa era fresco.

Enea si sedette sul sedile in pietra accanto all’ingresso e vi si appoggiò, godendosi l’insperato riparo dal caldo del pomeriggio, incurante delle asperità del muro.

L’ombra della chiesa occupava la piazzetta – uno slargo pavimentato con ciottoli tondeggianti tra cui l’erba cresceva indisturbata. Ai lati, due cascine diroccate e una stalla deserta pisolavano nell’afa; di fronte, i campi si riappropriavano del paesaggio.

Enea lesse la data semicancellata sull’architrave.

1638.

Età della Controriforma. Non c’è molta terra coltivabile da queste parti. Giusto questo pianoro: una lingua di terra che nessuno si sognerebbe di chiamare “altipiano”. Eppure ne hanno occupato un po’ per costruire una chiesa.

Pensò ai contadini che avevano strappato i sassi dall’alveo del torrente poco lontano. Grossi massi messi l’uno sull’altro a mani nude senza conoscere nessuna tecnica ingegneristica o architettonica se non quelle apprese dall’esperienza, la stessa con cui avevano tirato su le cascine e la stalla, probabilmente al prezzo di crolli, schiene rovinate, arti frantumati.

1638. Prima della rivoluzione industriale, di quella francese… prima. Da qualche parte aveva letto che, se un antico romano avesse potuto viaggiare nel futuro, avrebbe potuto arrivare fino a metà del 1800 riuscendo a raccapezzarsi. Dopo, gli sarebbe stato impossibile. Le macchine avevano cambiato tutto. E non erano che macchine a carbone e vapore.

Si alzò. Sulla sinistra, si apriva una finestrella di una cinquantina di centimetri per lato, chiusa da un grata in ferro.

Sbirciò all’interno e intravide le panche e, più in fondo, delle strutture più massicce: l’altare, il crocefisso, le statue di qualche santo. Alle pareti macchie scure, probabilmente rozzi affreschi di qualche pittore pagato con latte, uova, formaggio e bestie da cortile.

Si allontanò dalla chiesa di qualche passo. Sopra la data, quasi invisibili anch’esse, tre lettere.

D.O.M.

Deo Optimo Maximo.

A Dio, il più buono, il più grande.

Già.

La chiesetta sovrastava le cascine e il campanile, sulla destra, benché tozzo, faceva il possibile per sovrastare la chiesetta.

Enea si sedette di nuovo come, prima di lui, avevano fatto generazioni di contadini.

Si chiese che nome avessero.

Gli abitanti dei paesi vicini si riferivano all’abitato semplicemente come “Il piano”.

Probabile che fossero due famiglie – le cascine erano due – e che, negli ultimi decenni, non abitassero lì tutto l’anno; forse solo d’estate, quando c’era erba per gli animali.

Quando il progresso (le macchine) aveva reso antieconomico l’allevamento, l’avevano abbandonato.

Ci avranno lavorato in una ventina al massimo, alla chiesa. Tutta quella fatica, per cosa?.

D.O.M.

Gli uomini dei tempi antichi avevano eretto templi ai loro re-dei ed imperatori, gli uomini del Medioevo le loro cattedrali e gli uomini del Piano…Era solo una questione di proporzioni.

Anche noi abbiamo i nostri templi. Grattacieli alti centinaia di piani dove algoritmi spostano, alla velocità della luce, capitali immensi da un punto all’altro del globo, decidendo i destini degli uomini e

«Cattivo! Cattivo!».

La bambina era al centro della piazzetta, sotto una bicicletta, e si teneva con le mani un ginocchio.

Strano che non l’avesse vista o sentita prima. Troppo occupato a pensare alle cose invisibili, vecchio mio.

La bambina sgusciò da sotto la bicicletta (un affare rosso e giallo che sembrava perfettamente integro) strinse le mani a pugno e strillò di nuovo: «Cattivo!».

Per un istante, Enea pensò che si riferisse a lui, ma si accorse che era rivolta verso la cascina sul lato sinistro della chiesa.

Con la coda dell’occhio, colse il riflesso di un vetro là dove pensava che ci fosse una finestra rotta.

Allora le cascine non sono disabitate. Almeno: una non lo è.

Come in risposta all’attenzione che aveva ottenuto, la bambina strillò più forte, pestando i piedi per terra.

Poco dopo, un uomo uscì, i capelli scarmigliati di chi è stato destato dal sonnellino pomeridiano. Erano castano chiaro, lo stesso che, di lì a qualche anno, avrebbero assunto quelli della bambina, per il momento ancora di un giallo paglierino.

L’uomo si avvicinò alla figlia (non poteva che essere così), ma, quando fu a un passo, la bambina corse verso i campi.

L’uomo esitò, poi raccolse la bicicletta e tornò sui suoi passi. Notò Enea e si portò una mano alla testa in segno di saluto, come toccandosi la tesa di un cappello che non portava.

«Ha insistito tanto per avere la bicicletta e poi...» disse.

Andò verso Enea e si sedette sul sedile accanto al suo.

Si stropicciò la faccia con una mano come se si fosse appena svegliato o fosse molto stanco. L’altra reggeva la bicicletta che, nel suo arto di adulto, sembrava minuscola.

«Non si è fatta niente. Visto come corre?» non attese la riposta e proseguì «Non puoi andare in bicicletta se non cadi. Ancora non lo sa, lo capirà più avanti. Per adesso io sono il cattivo perché lei cade».

Si grattò la testa e disse: «Non ho voluto montare le rotelline. Finisce che non ti decidi mai a toglierle e...».

La bambina ricomparve. Stava accanto alla stalla, in silenzio, rimanendo all’ombra, come se volesse, allo stesso tempo, giocare a nascondino e farsi trovare.

L’uomo si alzò. «Naturalmente non permetterei mai che si faccia male. Rimango sempre nelle vicinanze, anche se lei non lo sa. Non mi vede, pensa che non ci sia e, se cade, mi dà la colpa. Ma capirà tutto più avanti» ripeté.

La bambina uscì dall’ombra e l’uomo le andò incontro.

Enea avrebbe voluto chiedergli che cosa ci facesse con una bambina in un posto così fuori mano – un’altra occhiata alla cascina gli confermò che, vetro o non vetro, era davvero malmessa – ma l’uomo aveva già raggiunto la bambina. Le carezzò la testa ed Enea sentì che diceva: «Andiamo dalla mamma».

Ecco, allora non c’erano solo loro due.

Gli sfilarono davanti ed Enea rivolse loro un saluto. L’uomo teneva la bambina con una mano e la bicicletta nell’altra e rispose con un cenno del capo.

Enea si appoggiò nuovamente alla chiesa e chiuse gli occhi.

Un padre, una madre, una figlia in un paese tanto piccolo da non avere neanche un nome, tra campi minuscoli.

Tutto in proporzione.

Non poté evitare di pensare che non era mai stato un gran ciclista. A dirla tutta, era un pessimo ciclista.

Forse perché non volevi mai togliere le rotelline.

Già, forse, a suo tempo, avrebbe dovuto imparare a cadere.

Si rese conto che l’uomo e la bambina non gli erano ripassati davanti e si chiese dove fossero e dove si trovasse la madre: non aveva sentito voci.

Probabilmente erano dietro la chiesa e le mura le attutivano.

Indugiò, poi si alzò e, incuriosito, ne fece il giro.

C’era solo un piccolo cimitero invaso dalle erbacce, come se fosse abbandonato da tempo. Anche le lapidi sembravano molto vecchie.

Dell’uomo, della bambina e della madre non c’era traccia, come se non ci fossero mai stati.

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