Apro gli occhi. Mi guardo intorno. Ho un attimo di confusione, poi riconosco i luoghi: sono nella camera da letto, a casa mia.
Di fianco a me dorme mia moglie, Bianca. Il suo sonno è tranquillo, cadenzato da un respiro regolare. I suoi lunghi capelli sono adagiati sul cuscino, e io non posso fare a meno di accarezzarli.
Ci siamo conosciuti che non avevamo ancora vent’anni. Il nostro amore, travolgente e passionale all’inizio, con il tempo si è trasformato in una dolce consuetudine, fatta di comprensione e piccole attenzioni quotidiane.
Non abbiamo avuto figli: inizialmente per scelta, poi, forse, per caso.

Sono le 5:30.
Non c’è tempo per divagare: devo recarmi al lavoro. Il turno inizia alle sei, e sono già in ritardo.
Mi lavo, mi vesto in fretta, poi mi preparo a uscire. Prima, però, mi chino su Bianca e le do un bacio leggero sulla fronte, attento a non svegliarla.
L’aria gelida dell’alba mi investe con violenza, in netto contrasto con il tepore del suo corpo che ho appena lasciato.
Metto in moto. Il parabrezza è coperto di brina. Il paesaggio è cristallizzato nel silenzio dell’inverno.
Dopotutto, è gennaio.

Parcheggio.
Sono arrivato: il parcheggio riservato ai dipendenti del mattatoio.
Sì, lavoro lì — nell’area dove gli animali vengono uccisi.

Li conduciamo dentro con calma, per ridurre lo stress. Rimangono in stalle d’attesa, con accesso all’acqua.
Poi li trasferiamo verso la zona di stordimento, in corridoi che limitano rumori e movimenti bruschi.
Prima dello stordimento, immobilizziamo l'animale  in un box. È per la mia sicurezza. Per l’efficacia di tutto il procedimento.
Usiamo la pistola a proiettile captivo penetrante.
Una punta metallica penetra il cranio e causa un trauma cerebrale immediato. Il proiettile resta attaccato al dispositivo, per questo si chiama “captivo”.

Mi hanno addestrato a posizionarla nel punto giusto: al centro della fronte, tra gli occhi e le corna.
Dopo, controllo che l’animale sia incosciente: niente respirazione ritmica, nessun riflesso corneale, muscoli rilassati.
Se mostra coscienza, lo stordisco di nuovo.

Entro sessanta secondi dallo stordimento, l’animale viene appeso per una zampa.
Poi incido profondamente il collo. Le arterie, le vene: dissanguamento completo. Morte rapida.
Poi ricomincio.
Con un altro.
E così per otto ore, cinque giorni a settimana.

Ricordo quando ho iniziato.
Avevo poco più di venticinque anni. Mi ero appena sposato con Bianca. Eravamo felici, certi che il futuro fosse nostro.
Non ci pensai troppo. Accettai quel posto convinto che ci avrebbe dato sicurezza, una vita semplice e stabile.
All’inizio non vedevo nulla in quegli occhi. Solo animali.
Ora ci vedo la paura. Il dolore. La rassegnazione.
La mia anima si sta riempiendo, giorno dopo giorno.
Di pensieri neri. Di immagini che restano.

Il turno è finito.
Spengo la pistola stordente, appoggio i guanti sul banco, mi lavo le mani. Il sangue scivola via, ma certi odori hanno memoria lunga.
Esco. L’aria di gennaio mi punge ancora, ma adesso è più viva.
Salgo in auto, accendo il motore, mi sistemo al volante. 

Bianca mi aspetta: il suo turno al ristorante sta per finire.
Ogni venerdì la vado a prendere. È un piccolo rito.

Guido senza fretta. Ogni curva mi porta più vicino a lei, ma non ho bisogno di correre.
C’è una dolcezza strana, nell’attesa.
Come quando si assapora un sogno sapendo che al risveglio svanirà.
I pensieri si sciolgono lentamente, come il ghiaccio sui vetri.
Vorrei restare qui, in bilico, ancora un po’. Prima che il desiderio diventi realtà.
Penso a Bianca, a quel suo sorriso appena mi vede arrivare, anche dopo una giornata stancante.
Penso a certe sere in cui ceniamo tardi, con quello che riesce a portar via dal ristorante: due porzioni di pasta al forno, un po’ di pane, una bottiglia di rosso.
Parliamo poco. Ma c’è una confidenza tra noi che non ha bisogno di parole.

Fuori scorrono vetrine spente, neon tremolanti, passanti infreddoliti.
Dentro l’abitacolo tutto è ovattato.
Guido adagio, perché non ho fretta di arrivare.
Solo il desiderio che quel tempo tra noi torni, e duri il più possibile.

Guido adagio, come per non svegliare qualcosa.
Come per non spezzare la fragile tregua che il pensiero di lei ha saputo concedermi.



 

La vedo fuori dal ristorante, stretta nel cappotto, che cerca di scaldarsi le mani con il fiato.
Mi sorride appena mi scorge. Quel sorriso, che riesce ancora a sciogliermi qualcosa dentro.

Sale in macchina, si sistema piano. Un bacio leggero sulla guancia, poi il silenzio consueto che ci accompagna nei tragitti di ritorno.
Ma stasera c'è qualcosa di diverso.

La sento guardarmi, più che parlare. Lo fa spesso ultimamente. Come se aspettasse che dicessi qualcosa che non riesco a dire.
Mi chiede, con una voce che cerca di essere leggera, se c’è qualcosa che non va.
Dice che è da un po’ che mi vede cambiato, assorto, come se fossi sempre altrove.

E io non so mentire.
Le dico che è il lavoro. Che qualcosa dentro di me si sta consumando, giorno dopo giorno.
Non è stanchezza, non è solo fatica: è come se qualcosa si corrodesse, piano, senza rumore, senza che io riesca a fermarlo.

Lei non insiste. Non è il tipo.
Ma posa una mano sulla mia coscia e la lascia lì, come a dire che c’è, che resterà.
A volte, basta solo questo.



Non serve aggiungere altro: ha capito. O forse lo sapeva già.

Allora glielo dico. A bassa voce, quasi più a me stesso che a lei.
Che ho deciso.
Che non posso continuare così.
Che questo lavoro, poco a poco, mi sta portando via qualcosa che non riesco a recuperare.
Che cambierò. Che sarà difficile, all’inizio soprattutto, ma non posso più far finta di niente.

Lei non si sorprende.
Fa un mezzo sorriso, come se stesse aspettando queste parole da tempo. Poi dice solo che ce la faremo. Che insieme supereremo anche questa.

Lo dice con semplicità, senza enfasi. Con una certezza che non ha bisogno di dimostrazioni.
E in quell’istante, sento che tutto il gelo di gennaio, tutta la fatica, tutto il sangue lasciato alle spalle, vale la pena affrontarli.
Se alla fine di ogni giornata c’è lei.

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