Mi immergo nell'acqua sulfurea, chiudo gli occhi e mi distendo.

L'altezza è quella giusta, sfioro il pelo della superficie e mi appoggio sulla ghiaia del fondo.

Il cielo, nonostante sia inverno, è assolutamente azzurro e limpido, sulla pelle la sensazione calda dell'acqua. Nelle orecchie il ritmo delle pulsazioni cardiache, mi rilasso e mi lascio cullare fino ad appisolarmi. Negli accordi del mio contratto c'è anche questo, soprattutto questo. Lavoro qui 365 giorni all'anno senza discutere, ma tutte le sere divento un cliente e mi immergo qui fin dopo l'orario di chiusura. I bagni termali sono rilassanti e tengono a bada certe infezioni aliene di mia conoscenza.

Perché sto scrivendo tutto questo, non lo so.

Magari mi potrebbe succedere qualcosa e un'indagine più attenta metterebbe in risalto questa specie di testamento, a beneficio dei posteri... Ma che belle parole! Mi piace semplicemente giocare con le parole, avere una valvola di sfogo a tutte le tensioni che sto accumulando.

Faccio l'operaio in un centro termale per un salario che non vale neppure un decimo delle mie rendite, ma ha lo scopo di tenere il mio corpo impegnato e lontano dai guai.

Naturalmente non sono sempre stato operaio, facevo un lavoro ben più redditizio e soddisfacente, da giovane mi piaceva definirmi “archeologo per hobby”. Altrettanto per “hobby” facevo il commerciante e cercavo degli sponsor privati a cui offrire i miei servigi per arricchire le loro collezioni private degli oggetti che “trovavo”.

Qualche volta mi hanno chiamato “tombarolo" e "ladro”, ho un mandato di cattura internazionale a mio nome, ma sono cose che hanno poca importanza, soprattutto perché quel nome l'ho usato per appena sei mesi, non mi piaceva un granché, meglio tanti altri che ho usato dopo!

Poi il colpo del millennio: ci ho lavorato anni, ma ne valeva la pena.

Prendevo sul serio il mio lavoro e quello era il più importante che avessi mai fatto. Passai ventotto mesi a far ricerche nelle biblioteche e nei musei, tra Londra, Parigi e Berlino, alternati a studi nelle collezioni dei miei clienti più affezionati.

Tutto era cominciato con una traccia scovata in una città ittita, Kanes, dove trovai riferimenti a un tempio ancora più antico alla dea della luna: Se una tavoletta vecchia di tremilacinquecento anni mi parla di qualcosa di ancora precedente ottiene il massimo della mia attenzione.

Da qui la ricerca sui diari dei migliori ricercatori sul campo degli ultimi due secoli mi permise di capire dove indirizzare le mie ricerche, dato che partivo da un'area grande un terzo della Turchia attuale e ridurlo alla superficie di una trentina di ettari, attualmente abitati da una tribù di pastori interessati dalla modernità quanto basta da imparare a difendersi con le armi da fuoco automatiche, gente poco pacifica, insomma.

Per potermi muovere indisturbato mi occorreva confondermi con gli abitanti del posto. Altri tre anni spesi a frequentare le comunità armene in Germania e Italia. Gran brutta bestia l'italiano, sono più credibile quando parlo turco.

Così, con un'identità falsa da figlio di emigrante e una lettera di presentazione (falsa anche quella) raggiungo un villaggio con la scusa di cercare la tomba di mio nonno. I pastori mi accettano con rispetto anche perché ho portato dei doni che a loro interessano molto... conoscendo le persone giuste si può importare qualunque cosa in qualunque stato e qui gli armamenti sono nella lista delle cose “qualunque”.

Mi metto a gironzolare per le colline qui intorno e faccio domande, si è sparsa la voce che sto cercando tracce della sepoltura di mio nonno quindi sono ospitali, mi mostrano i posti più importanti per il loro credo, quelli che la loro tradizione orale riconosce come sacri: io ne cerco uno in particolare, che rispondono alla descrizione di un sito individuato centocinquant'anni fa e mai esplorato: spero che dentro ci sia la traccia che mi porti al mio tempio.

Finalmente lo trovo, una specie di anfiteatro dall'apparenza naturale, ma io so che è stato ottenuto scavando una collina rocciosa; il tempo ha fatto il resto.

Resto da solo perché i pastori hanno altro da fare, tiro fuori la mia attrezzatura e comincio a sondare il terreno e l'anfiteatro finché trovo l'ingresso a una grotta mezza franata. È un caso che sia ancora accessibile, scavando solo un po'. Sembrava che aspettasse me, nessuno del posto aveva osato mai entrare qui e gli archeologi finora non se ne erano interessati più di tanto... che fortuna!

L'accesso è un cunicolo che scende lungo la parete dell'anfiteatro, stretto e in ripida discesa. Appena lo imbocco mi manca l'aria, come se un qualche gas ristagnasse nell'anfratto. Dev'essere questo che ha fatto desistere sia ricercatori che profanatori. Per fortuna sono partito attrezzato, ho un autorespiratore e scorta di ossigeno per ore ed ore, Sarà più complicato strisciare in basso, oltretutto con il sangue che mi va alla testa, ma ce la posso fare, non è il peggio che ho sopportato.

Pare proprio che nessuno prima di me sia passato di qui, qualunque cosa entri qui rischia di morire soffocata all'istante e il fatto di non trovare ossa o tracce di cadaveri dimostra che questo posto è inviolato da tempo immemorabile: sto avanzando da almeno mezz'ora e l'unica mia compagnia è la luce della torcia tra le radici seccate e le rocce.

Mi ci vuole un'ora per raggiungere un ambiente più spazioso, quasi una grotta. Mi metto a filmare ancor prima di potermi alzare in piedi: un geologo non crederebbe ai suoi occhi e anche io faccio fatica ad adattarmi all'idea di quello che sto vedendo: un monolite giallognolo, alto almeno quattro metri, sembra zolfo, non sono abbastanza esperto in chimica inorganica, ma so che è quasi impossibile che possa conservarsi così a lungo senza combinarsi con l'acqua, almeno quella di condensa che si dovrebbe formare lungo le pareti perfino qui nel deserto.

Mi distraggo dal monolite per guardare le pareti: una roccia scura, compatta, interamente istoriata e lucidata ma non una stilla d'acqua. Forse il gas che ammorba l'aria crea una specie di isolamento. Chissà cos'è.

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