Il commiato è veloce, spietato, agghiacciante. Il commiato non si serve di mezze parole, di aggiustamenti di tiro, di giravolte verbali. Il commiato è tutto in dieci parole messe in fila e studiate una ad una. Le hanno messe giù fior fiori di “giuslavoristi”, imprenditori, managers… sssssssss…
Sono lapidarie, ammiccanti, falsodolci e a volte melense. Gli sguardi sono bassi, fuggevoli, fintamente distensivi; sono lontani, impraticabili e vuoti. L’abbigliamento informale, quasi casalingo; la barba di qualche giorno che indica macerazione, dubbio, insonnia. Tutto studiato nei minimi particolari.

È una recita che s’è sempre tenuta, ma che ultimamente ha raggiunto apici d’un lirismo e di una tragedia unici, quasi inarrivabili. E ci sono attori a recitare, oh, degni di questo nome! Hanno Lauree e Master, sono specializzati proprio in questo specifico mestiere. Hanno scorte di Maalox nella ventiquattrore e si lavano e sciacquano la bocca decine di volte al giorno a causa dell’alito pesante causato loro dal mal di stomaco.
Ogni commiato è una vita rovinata, una famiglia rovinata, diversi futuri rovinati. Il commiato è una condanna, più sottile della carcerazione, più crudele di un ergastolo, più doloroso di un pestone su una piaga. È qualcosa che ogni uomo dotato anche solo di un briciolo di dignità, ma anche solo di un minimo, non vorrebbe sentirsi dire. Eppure per molti, una miriade addolorata e stanca, il commiato arriva. E con la sua falce colpisce ancora prima che sia ora. Colpisce quando anzi si hanno tutte le armi cariche, tutte le lance in resta. E si vorrebbe combattere, almeno controbattere… ma ogni frase che si dice è rimpallata con la maestria della beceraggine, della mancanza di scrupoli, della diavoleria; ogni mano messa avanti per parare i colpi è affettata, troncata di netto da un foglio, da un comma, da una postilla, da una Legge.
Ebbene sì: c’è una Legge che permette che un uomo sia finito, ucciso dentro. Una Legge che gli dice che egli non è più utile; che su di lui non potranno più basarsi le aspettative di una moglie, di uno o più figli. Che avrà un pallido sostegno, per un certo tempo, e poi basta. Gli dicono che avrà tutto il tempo per rimettersi in gioco, dopo che avrà trascorso un primo periodo di incredulità, poi di dolore, sferzato di tanto in tanto da una scudisciata di fiducia che appare all’improvviso perché la mente, anche la più rattoppata e rabberciata, ogni tanto reagisce e dopo che avrà trascorso decine e decine di notti insonni, rovinandosi quel poco di salute che gli era rimasta.
Gli dicono che la loro “è stata una decisione meditata e sofferta”, mentre guardano altrove o si mescono acqua minerale e sono distratti dal pensiero della partita a calciotto che giocheranno in serata. Poi porgono la mano, che ritraggono con rammarico comprensivo, certo capiscono, quando l’altro non ricambia la stretta e assume l’aria che avrà da lì fino a chissà quando. L’aria di un uomo abbattuto e sconfitto: la testa ritratta tra le spalle, il passo ciondolante percorrendo il corridoio dove fino a ieri era di casa, chiacchierava, prendeva un caffè. Gli altri lo guardano e osservandolo capiscono e subito si scansano, come se egli fosse un malato. Ha subito il commiato. Bisbigliano tra loro, fanno capannelli e iniziano le conte e le congetture.
Se lo ha subìto lui… io che ho la stessa età…
Ma no… non è detto! Lui guadagnava più di te…
E allora si tergono il sudore. A loro non toccherà ancora, il commiato, per qualche anno.
Poi qualcuno scriverà una email. E per lui inizierà la Giostra.


“Oh come è bella la Giostra del mondo
Dove mai niuno arriva secondo
Dove niuno sarà mai scordato
Dove ogni uomo verrà un dì pescato
E condotto davanti allo scranno
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