A volte riaffiorano all’improvviso, i ricordi dico, e strabordano come un bicchiere d’acqua troppo pieno.

Non puoi fare a meno di bagnarci le labbra per poi berli fino in fondo, tutti in un sorso, perché sono troppo dolci, amari o salati per smettere.

 

I tuoi di dove sono?

Tutti i genitori sono di Caorle e di Capranica.

Ho chiesto anche a mia sorella che ha due anni più di me e io, che ne ho quattro, non vorrei essermi sbagliata.

Lei, che è anche mia amica, me lo ha confermato. Anche i suoi genitori sono di Caorle e di Capranica. Bene, allora ne sono sicura! Questo è un fatto. Sono pronta a comunicarlo al mondo.

La mattina seguente incontro la mia amica Maria Rosa e dichiaro con tono un po’ saccente e formale: “Tutti i genitori sono di Caorle e di Capranica. Anche i tuoi!”.

“I miei sono di Agrigento.” Mi risponde irritata.

“Non è possibile, perché mia sorella, che è pure mia amica, ha i genitori di Caorle e di Capranica!” ribatto pronta a lottare per la verità.

“Io sono figlia unica e i miei sono di Agrigento!” sentenzia, fulminandomi cogli occhi.

Sarà per quello, allora. 

I figli unici possono avere genitori di altre parti.

 

 

Fumare fa male

Sono al mare all’Isola d’Elba insieme a mia sorella e ad un’amica.

Come al solito me ne vado strisciando le infradito in cerca di more da strappare. La più buona è quella più lontana, quella che per raggiungerla devi sacrificare al dio della gola l’avambraccio sinistro e destro, neanche avessi lottato con un felino inferocito. 

Una volta trovata, vige il divieto assoluto di lavarla a casa: si deve soffiare via la polvere e gustarla in loco, pena un dimezzamento del gusto per ogni metro che ci si allontana dal rovo di provenienza.

Torno vincitrice dopo una singolar tenzone con un rovo, vedo mia sorella e degli amici seduti intorno ad un falò in spiaggia. Lei sta fumando una sigaretta. La guardo: tiene la bionda incastrata tra il terzo e quarto dito, con la mano rigida come fosse una paletta e, ad ogni tiro, pare voglia nascondersi alla vista degli altri.

“Perché tieni la mano così quando fumi?” le domando a voce alta mentre mi siedo a gambe incrociate accanto.

Lei mi guarda con gelo, mentre tutti si voltano verso di noi.

Io mastico un filo d’erba rinsecchito, sperando che un cane non ci abbia fatto pipì sopra.

“Perché, come la tengo?” mi ringhia di ritorno.

“A paletta! Sembra che tu ti stia vergognando di quello che fai.” Spiego continuando a rosicchiare la mia paglietta neanche fossi un coniglio.

“E come la dovrei tenere?” sbotta abbassando la mano e lanciandomi saette dagli occhi.

“Ma, per esempio così…” le dico, sfilandole la sigaretta dalle dita e appoggiando la mano mollemente sulle ginocchia, oppure tirando su l’avambraccio per sfiorarmi la tempia, ma soprattutto tenendo il puzzolente mozzicone tra il secondo e terzo dito o, nel caso volessi imitare un po’ Clint Eastwood, tra il primo e il secondo.

Lei, furiosa, si alza e se ne va.

Perché? Che ho detto? Penso io.

Mia sorella non ha più preso una sigaretta in mano.

Le ho fatto risparmiare un sacco di soldi.

 

 

La salsa di pomodoro

Ad agosto in campagna si preparava la salsa di pomodoro per l’inverno successivo. Mio padre tirava fuori dal bagagliaio della 127 infinite casse di pomodori oblunghi che la sera si trasformavano in una fila interminabile di bottiglie di salsa.

Mia madre e mia nonna lavavano quegli splendidi frutti nelle ceste da bucato mentre io, dopo averne rubato alcuni, mi arrampicavo a succhiarne il succo sopra una pianta. 

Da lontano la visuale era più bella: loro si muovevano all’unisono come un’orchestra senza direttore giacché ogni atto dell’opera era conosciuto a menadito.

Una macchina misteriosa con una manovella simile a quelle dei carillon sputava su un piatto le fastidiose bucce e i semi; lo faceva da dietro, in modo discreto e silenzioso, come una signora altolocata che posa sul piatto i noccioli delle olive dopo averli nascosti nel pugno di una mano. 

Sul davanti invece la stessa macchinetta profondeva generosa una cascata rossa dai riflessi dorati. 

Ecco, lì capii perché il pomodoro aveva questo splendido nome.

Ogni bottiglia, precedentemente sciacquata, veniva corredata da una bella foglia di basilico fresco. Per questa operazione venivamo chiamate io e mia sorella perché avevamo le dita piccole che entravano bene nel collo della bottiglia.

Dopo un po’ il profumo del basilico impregnava le mani in un modo quasi sfacciato e, dal momento che all’epoca avevo il vizio di tirarmi indietro la frangia con le dita, in breve tempo mi ritrovavo con i capelli che profumavano così tanto di quella pianta da anticipare la mia presenza a chiunque.

Finito di inserire un numero incalcolabile di foglioline in tutte le bottiglie, io e mia sorella ci davamo alla macchia trasformandoci in Tarzan lei, e Cheetah io. Ci lanciavamo da una pianta all’altra mimando passaggi su liane invisibili, anche perché in quel noccioleto, gli alberi erano così bassi da non permetterci di alzarci da terra per più di venti centimetri; ma erano dettagli di nessuna importanza perché in quel momento noi potevamo essere tutto quello che volevamo.

Dopo aver imperversato tra i frutteti insieme a Sandokan ed aver attraversato qualche prateria in compagnia di Rin Tin Tin, planavamo alla tavolata che si era composta magicamente all’ombra di un castagno. 

Vassoi di salsicce, bistecche e bruschette ci attendevano con impazienza per essere mangiati. E noi li accontentavamo subito.

Nessuno aveva controllato se l’olio d’oliva che accompagnava il tutto fosse “extra” perché era scontato che lo fosse. Del resto il contadino che ce lo aveva venduto cosa poteva usare se non le sue olive?

Sazie, io e mia sorella ci trasferivamo dentro alla 127 per darci ad una pazza guida sfrenata. Naturalmente per finta! I sedili di pelle nera erano così arroventati dal calore del sole che quasi ne restavamo ustionate, così la mamma ci dava un plaid in lana per proteggerci un po’. Così potevamo scegliere se fare la fine del coniglio in umido o arrosto!

Da lì in poi i ricordi si fanno confusi… bollite dalla giornata piena e dalla calura estiva ci addormentavamo in auto cullate dal frinire delle cicale e da quella bava di vento che entrava attraverso i finestrini.

La sera mi svegliavo solo davanti al portone di casa quando il motore dell’auto si spegneva e il tintinnare tremulo delle bottiglie di salsa nel bagagliaio si interrompeva.

La giornata era terminata. 

La scorta per l’inverno era salva e, come il sorgere del sole era cosa certa, la liturgia della salsa di pomodoro si sarebbe ripetuta l’anno successivo secondo lo stesso copione.

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