Le vacanze estive culminavano con la festa patronale del paesino di neanche 2000 anime.

Concludeva in settembre, la stagione della raccolta delle nocciole, ricchezza dei Nebrodi all’epoca, ora forse un po’ meno, si proprio quelle nocciole su cui ero volata 

Si vendevano o si compravano in quel periodo.

Certo le birbanterie di noi bambini non cessavano, il nonno materno, che in un grande magazzino custodiva sacchi e sacchi di nocciole ci portava in una altra campagna vicina dove aveva un altro noccioleto e ci diceva che dopo il secondo passaggio delle lavoranti potevamo raccogliere quello che rimaneva.

Figurarsi , lo sapeva bene che al massimo ne potevamo raccogliere si e no qualche etto, ma noi infidi e poco onesti a dire il vero di soppiatto andavamo nel magazzino e facendo dei buchi

strategici riempivamo i nostri cestini che poi il nonno pesava e ci dava una certa cifra a testa.

Credo però che se fosse accorto ma stava al gioco.

Si capiva che si apprestava la festa con l’arrivo degli emigranti, da lontano e da vicino, per esempio da oltremare, dal nord e magari dai paesi vicini.

Nessuno voleva mancare quell’appuntamento, era motivo di ricongiungimento ai parenti rimasti, di orgoglio per mostrare i propri successi altrove, motivo per sanare vecchi rancori, motivo solo per visitare i propri morti, motivo solo per ostentare la propria ricchezza.

Cominciava già ad agosto il rito del cosa mi metto, almeno per le bambine e le fanciulle da marito.

E fiocchi e trine facevano capolino dai bauli familiari, si cucivano e scucivano per riadattarli abiti delle nonne e udite udite qualcuna andava anche dal parrucchiere, uno solo e unico del paese per la verità ma che però aveva le mani d’oro.

Credo che ancor oggi sia il vanto del paese.

C’era anche il rito del bagno, di solito si faceva 1 o 2 volte al mese in quelle estati assolate, d’altronde che necessità c’era, noi bambini sguazzavamo sempre nel ruscello a ridosso del paese o sotto le “ vedovelle”,

Ma in quel periodo, l’antivigilia della festa era un susseguirsi di pentoloni di acqua calda, immensi catini di acqua fredda, sapone di Marsiglia, la nonna diceva ”sgrasgia meggiu i tutti” e poi nuvole soavi di borotalco.

In tutto il paese c’era un “sciauru” di nuvolette, di ragù rigorosamente di maiale per condire i “ maccarruni” cu buco fatti a mano. E poi quintalate di “alivi cunzati e sasizza arrustuta”.

Arrivavano i venditori ambulanti con le bancarelle si posizionavano fra la chiesa e la piazza e con gli occhi di allora vedo mirabilia su quelle bancarelle.

E vuoi non parlare della processione?

Il rito sacro dell’uscita della Madonna era commovente e spettacolare.

Si racconta che anni dopo quella effige avesse il volto rigato di lacrime ma null’altro so.

Percorreva poi, la statua adorna di preziosi ex voto, tutto il paese con in testa “ u parrinu” in pompa magna e appresso una folla cantante litanie dal vago sapore orientaleggiante e con lumi di carta.

Non c’era verso che io rimanessi in mezzo agli oranti, sgattaiolavo in ogni vicolo che incontravo per sfuggire a mia madre che mi agguantava nel vicolo seguente.

Evviva c’era anche la banda!

E che banda! Musicisti eccellenti e anche la banda è tutt’ora il fiore all’occhiello dei paesani.

C’era la sosta di tutti, personalità e no, davanti al bar più rinomato, i tavoli sul marciapiede, il biliardo all’interno dove i giovani “ leoni” si dilettavano, e il tutto condito dal più buono, sublime, inarrivabile, gustoso, superlativo gelato dell’universo conosciuto.

Mai più ho gustato quella perfezione!

Seguire la banda lungo il tragitto era si quella la vera festa, e alla sera il rituale si compiva con due riti, lo spettacolo canoro e se c’erano soldi anche personaggi della tv e poi i fuochi d’artificio che illuminavano la valle.

E’ finita l’estate! 

In sul calar di notte venivano smontate le bancarelle, la statua della Madonna veniva riposizionata nel suo piedistallo in chiesa, la banda riponeva gli ottoni, le strade perdevano il vocio festoso, rimaneva nell’aria il profumo di cose andate e l’acre odore della quotidianità.

Ahimè si tornava a scuola.

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