Dalla persiana di questa grossa stanza filtra la luce del sole. Dovrebbe essere tarda mattinata.

Non mi è mai piaciuta troppo la luce. 

Le mie pupille si stringono, gli occhi si chiudono, quella polverina che traspare dal fascio di luce è fastidiosa.

Chiuso qui dentro mi aiuta a scandire il tempo e la sopporto.

Sono un prigioniero, ma non sono incatenato.

I miei carcerieri mi permettono di muovermi all’interno di questo stanzone, a volte capita di sentirmi fortunato per questo, forse è la lunga detenzione che parla.

Ricordo nitidamente il mio sequestro.

Era un girono di pioggia. Non faceva freddo, la primavera era alle porte. Ero con la mia famiglia. Mi allontanai per qualche minuto incuriosito da un automobile parcheggiata un centinaio di metri più avanti. Ad un tratto mi sentii afferrare da dietro. 

Una presa ferma, potente.

 Cercai di divincolarmi in ogni modo, urlai terrorizzato, ma il mio aggressore era troppo forte. Mi sollevò da terra e di peso mi porto via. Il tutto durò qualche istante.

Mi trasportò in questa stanza lasciandomi solo un recipiente d’acqua.

Da quel giorno non ho mai abbandona la convinzione di poter scappare e tornare dalla mia famiglia.

Qualche settimana fa ci sono andato vicino.

La guardia quel giorno era distratta, impegnata con un arnese mi dava spesso le spalle. Quell’aggeggio era impressionante, il solo rumore faceva rabbrividire. 

Dove cazzo ero finito...?

Il marchingegno che maneggiava con destrezza doveva essere un arma concepita per infliggere punizioni corporali, forse in fase sperimentale, ne ero certo, e probabilmente lo dovevano testare su di me.

Ero seduto nel mio solito angolo della stanza, che consideravo ormai il mio letto, mentre la guardia entrò nella stanza vicina.

Dopo una mezz’ora usci accostando la porta, per la prima volta riuscii a vedere cosa c’era al di là della parete. 

Un banco da lavoro enorme, con lame affilate e attrezzi appuntiti. Già mi immaginavo bloccato li sopra mentre mi staccava qualche orecchio e mi infilzava il ventre con qualche lama. Sbarrai gli occhi.

Scossi la testa come per riprendermi, vidi poco più in là una finestra, era aperta.

Spalancai quella porta, la foga mi fece scivolare, urtai una sedia e poi il tavolo, il carceriere si voltò.

Mi urlò qualcosa mentre cercava di rincorrermi. Saltai.

Ero fuori.

Mi trovai in un cortile, un muro alto un paio di metri perimetrava il carcere.

Decisi di girare lo stabile alla ricerca di un pertugio nel quale infilarmi.

Ad un tratto, il rumore di passi rapidi si avvicinò. Un cane da guardia indemoniato mi dava la caccia. Non mi aspettavo un avversario del genere. Mi accucciai su me stesso rassegnato alla cattura. 

Il bestione mi puntava, con il naso a un millimetro dalla mia schiena, impediva ogni mio movimento. La guardia ci raggiunse, prese per il collare il cane che, soddisfatto per il lavoro svolto, comincio a correre a destra e sinistra fiero della missione compiuta. 

Mi strinse per il collo, mi fissò gridando qualcosa di incomprensibile, poi mi rigettò in cella.

Da quel giorno il carceriere mi sta con il fiato sul collo, impedisce ogni mio pensiero di fuga.

Il cane, che fino a quel giorno era rimasto sempre fuori dal carcere, ora mi fa compagnia nella stanza, anticipa ogni mio passo, mi segue con lo sguardo ad ogni mio piccolo accenno di movimento.

La persiana ormai è buia, la stanza è illuminata da luci artificiali fortissime. L’ennesimo giorno di prigionia sta per terminare.

So per certo che sta arrivando l’ora della cena perché il braccio destro della guardia rientra sempre a quest’ora, pronto a sedersi per ingurgitare del cibo, che a me, vedendolo, pare sempre delizioso.

Sta per arrivare anche il mio turno. Dal giorno della tentata fuga mangio insieme al cane. Il padrone riempie  la sua ciotola e lascia del cibo per me li affianco. Mi sto abituando all’idea di mangiare con un cane, d’altronde non ho scelta.

Il Complice del carceriere da qualche giorno, dopo cena, accende un fuoco per scaldare l’ambiente. È piacevole.

Mi avvicino di soppiatto per scaldarmi e con un passo felino raggiungo la poltrona occupata dal tizio.

Mi accomodo sopra di lui. Non so perché lo faccio, è l’istinto che mi comanda, forse l’abitudine.

La sua mano comincia ad accarezzarmi sotto il collo. Inizio ad emanare un ronfo gutturale, mi sto rilassando. Affondo gli artigli delicatamente sulla sua coscia. Una sensazione soporifera mi avvolge.

Chiudo gli occhi.

Il cane comincia ad innervosirsi come se fosse geloso.

Non capisce che lui è solo un cane ed io un gatto. 

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