Capitolo 1: Il villaggio

Il mattino saliva piano dal fondo della valle, portando con sé l’odore di legna bruciata e di pane in cottura. Le case del villaggio erano basse, annerite dal fumo, con i tetti rabberciati e le imposte ancora chiuse. Ma non c’era silenzio. Non era un villaggio morto.

Un bambino lanciava un sasso nel torrente. Una donna anziana rimestava un paiolo con la stessa lentezza con cui si ricordano le cose. Due ragazze stendevano panni sul filo, parlando a bassa voce, con gli occhi che ogni tanto si voltavano verso la strada. Non per paura, ma per attenzione.

Le chiamavano le Sorelle. Nessuno più le indicava sottovoce, come nei primi tempi. Ora, quando passavano, le donne accennavano un saluto con il capo. I bambini si facevano da parte, sì, ma con quella sorta di rispetto silenzioso che si ha per chi protegge. Per chi veglia.

Erano sette. E nessuna era uguale all’altra.

Nel cortile della casa più esposta, quella senza recinzioni, Luigia spaccava la legna. La camicia arrotolata sulle braccia muscolose, le mani spaccate, il volto rotondo rigato dal sole e dal vento. Nessuno nel villaggio portava tronchi sulle spalle come lei, né si azzardava a dirle come andasse fatto qualcosa.

Poco lontano, accanto al muro del vecchio granaio, Teresa stava in ginocchio tra le foglie. Era intenta a sistemare un marchingegno fatto di corde e legni. I capelli le uscivano a ciocche da sotto il fazzoletto, e i suoi occhi non stavano mai fermi. Era lei a tendere le trappole nei boschi. Lei a conoscere i passaggi nascosti, i punti da cui sparire e quelli da cui colpire.

Dal campanile della chiesa sconsacrata, Maria osservava. Il fucile appoggiato accanto, le mani strette intorno a un binocolo rovinato. Aveva occhi neri, profondi. Era stata madre, un tempo. Ora lo era per tutte loro. Quando parlava, lo faceva con fermezza. Ma erano i suoi silenzi a mettere ordine.

Dietro la casa del fabbro, seduta su una cassa rovesciata, Giuseppina puliva il fucile con gesti rapidi. I capelli corti, la mascella tesa, il sorriso storto: sembrava sempre pronta a dire qualcosa di pungente, ma aveva imparato a non sprecare parole. Tirava meglio di chiunque altro. E non sbagliava mai due volte.

Elena attraversava la piazzetta centrale con una cesta al braccio. Portava i capelli corvini raccolti in una treccia stretta, e un abito semplice che le cadeva bene addosso. Il suo sguardo era quello di chi ha imparato a farsi rispettare. Nessuno nel villaggio ignorava la sua presenza, ma nessuno osava avvicinarsi troppo.

Rosa correva lungo il sentiero che costeggiava il torrente. Aveva la sporta stretta al petto, le trecce sciolte che le cadevano sulla schiena. Era la più giovane, la più veloce. Nessuna come lei sapeva infilarsi nei cunicoli, tra i rovi, nei fienili. Era stata una sopravvissuta. Ora era una combattente.

E infine Caterina, nella scuola.

L’edificio era ormai solo un guscio. Le finestre barricate, la porta rinforzata, la lavagna annerita dal tempo. Ma lei era lì ogni mattina, come prima. Sedeva dritta alla vecchia cattedra. Una candela accesa tremava sul tavolo. Sfogliava libri scoloriti, appunti, quaderni di bambini che forse non c’erano più.

Nel cassetto teneva un coltello ricurvo, una pistola e tre cartucce. Li guardava ogni giorno. Poi li richiudeva. Come si chiude una pagina che non vuole essere letta.

Il villaggio era tornato a vivere così. Senza uomini, ma con donne che non si lasciavano piegare. E con sette Sorelle che avevano scelto di restare, combattere, proteggere.

I vecchi offrivano silenzio. Le donne tendevano una mano senza fare domande. I bambini ascoltavano storie mai dette. E tutti, in fondo, sapevano che finché le Sorelle erano lì, nessun nemico avrebbe preso quel villaggio senza lasciare il sangue tra le pietre.

 

Capitolo 2: La Maestra

Prima che tutto cambiasse, Caterina aveva una cattedra.

Una vera cattedra, con le gambe sbeccate e il piano rigato. Ogni mattina vi appoggiava sopra il registro, un mazzo di gessetti e la sua voce.

La scuola era una stanza con le pareti scrostate, i vetri opachi d’inverno, il pavimento di pietra che tratteneva il freddo fino a primavera. Ma per lei era un tempio.

Alle otto in punto apriva la porta, col fazzoletto legato stretto sulla nuca, e lasciava entrare i bambini. Alcuni venivano da lontano, scalzi, con il fiato che usciva in nuvolette. Li chiamava per nome, uno a uno, con la stessa cura con cui si sfoglia un libro prezioso.

Caterina insegnava tutto. A leggere e a non abbassare la testa. A scrivere bene e a camminare dritti. A contare e a riconoscere l’ingiustizia. Non faceva differenze tra i figli del mugnaio e quelli della lavandaia. Se c’era un bambino più lento, se lo sedeva vicino. Se uno più sveglio si faceva arrogante, lo rimetteva al suo posto.

Sapeva essere dolce. Ma non era indulgente.

A fine giornata restava sempre un po’ in classe, da sola. Riordinava i banchi, controllava i quaderni, puliva la lavagna. A volte si sedeva e si prendeva un momento per guardare fuori, verso le colline.

Aveva avuto delle occasioni: un corteggiatore che le portava fiori selvatici, un giovane falegname che le scriveva poesie. Ma Caterina aveva sempre declinato con gentilezza. Non per mancanza di sentimento, ma perché sapeva che il suo cuore era già colmo dell’affetto per i suoi bambini. Ogni sorriso, ogni progresso, ogni difficoltà superata insieme a loro le dava una gioia che nessun altro legame avrebbe potuto eguagliare.

Non fu un sacrificio dettato dal dolore. Fu una scelta chiara. Consapevole. Silenziosa.

Poi arrivò la guerra.

All’inizio non cambiò molto. Si continuava a insegnare, a cantare l’inno, a disegnare il tricolore. I padri partivano, ma i figli venivano comunque a scuola. Le madri si arrangiavano.

Poi cominciarono ad arrivare lettere. E dentro le lettere, la notizia.

Uno a uno, i banchi si svuotarono.

Caterina cancellava i nomi dal registro con la stessa lentezza con cui li aveva scritti. Non faceva domande, non commentava. Solo, a fine giornata, restava più a lungo seduta in fondo all’aula, con il gesso tra le dita e nessuna lavagna da riempire.

Quando l’ultimo bambino non si presentò, chiuse la porta e non tornò per settimane. Ma non si ammalò. Non fuggì. Non smise di essere maestra.

Un giorno, riaprì la scuola. Rimise in ordine i banchi. Tirò su le imposte. Riaccese il fuoco nella stufa. Non perché ci fosse qualcuno da istruire. Ma perché qualcosa — in lei — non sapeva stare fermo.

Poi, da fuori, arrivarono altri rumori. Non più solo quelli delle scarpe dei bambini, ma passi diversi. Più pesanti. Ordinati.

E Caterina capì che insegnare non bastava più.

 



 

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