Fa strano raccontare di sé stessi tradendo un senso di fastidio per qualcosa che, a tutti gli effetti, dovrebbe essere una fortuna.
Eppure è proprio quello che mi sta succedendo.

La mia fortuna, almeno secondo la maggior parte delle persone, consiste nell’avere una relazione sentimentale con un campione di Formula 1.
Lo chiameremo, per semplicità, B.
Ci siamo conosciuti a una festa — niente di più banale, lo so.
Devo ammettere che ero piuttosto incuriosita da lui, da questo essere umano che trovava motivo di gioia e realizzazione nello sfrecciare come un ossesso su un mezzo meccanico, per sessanta giri o più, lungo lo stesso identico circuito.
Non so se l’ho mai amato.
Di certo mi ha incuriosito.
E quell’ambiente… mi attraeva. Non so se per fascinazione o per semplice spirito antropologico.

Il fatto che intorno a questi ragazzotti — alcuni anche piuttosto bruttini, con facce da bulldog napoletano — gravitassero tutte queste bellissime ed avvenenti ragazze, di cui non si sa nulla se non il fatto di essere collegate a questo o quel pilota, mi metteva piuttosto a disagio. Il fatto che tra di loro non ce ne fosse una, che so, con qualche chilo di troppo oppure bassina, o comunque con un’estetica che fosse da vicina di casa e non da Miss Universo, mi faceva pensare di avere a che fare più con polli di batteria che con un’umanità composta da individui distinti.

Non che mi sentissi fuori luogo.
Dopotutto — non per vantarmi — anche io sono piuttosto carina, e spasimanti non me ne sono mai mancati.
Ma trovarmi in un ambiente dove la varietà antropologica dell’essere umano sembrava evaporata, dove ogni volto pareva stampato in serie come un gadget promozionale… beh, iniziava a darmi da pensare.
Mi veniva da riflettere che, forse, non tutto ciò che luccica è oro.
A volte è soltanto plastica metallizzata, e pure un po’ appiccicosa.

Certo, B. sembrava un bravo ragazzo.
Magari non una cima, ecco — ma nemmeno glielo chiedeva nessuno, a essere sinceri.
Il suo mestiere era correre veloce in tondo, non risolvere equazioni differenziali o citare Kant.
Diciamo che, una volta usciti dai confini di argomenti come set-up, undercut, blistering e compound morbidi,
ecco… diciamo che non brillava particolarmente.
Insomma, usciti dal mondo della Formula 1, cominciava a barcollare.
E quando dico barcollare, intendo crollare proprio, tipo palafitta marcia in mezzo a un’alluvione.

A essere onesti, una volta mi ha chiesto se il Burkina Faso fosse un tipo di frutto esotico.
E lì ho capito che, forse, dovevo iniziare a farmi qualche domanda.
Fu allora che la mia mente — subdola, come se fosse animata da una volontà tutta sua, o forse solo spinta da una voglia irrefrenabile di seminare un po’ di sano scompiglio in quel mondo troppo perfetto per essere vero —
cominciò a escogitare un piano.
Avvertivo la necessità impellente ed irrefrenabile di fare un gesto piccolo, meschino, gratuito e totalmente inutile.

In occasione di uno dei tanti Gran Premi, B. mi invitò nel paddock – si dice così, vero?
Fino ad allora non avevo mai voluto partecipare, e lui ci era sempre rimasto un po' male. Ma questa volta accettai, un po' perché dirgli di no per l'ennesima volta non mi sembrava carino, ma più probabilmente perché mi dava l'occasione di mettere in pratica i miei funesti pensieri.

Ero seduta al mio posto, terza fila dalla griglia, abbastanza vicina da sentire l’odore dei freni surriscaldati e lontana quanto basta da non sporcarmi di champagne.

L’aria sapeva di gomma bruciata e benzina calda, come in un incubo firmato da una casa automobilistica. 


Indossavo un tailleur bianco — uno di quelli che fanno finta di non voler attirare l’attenzione ma che, guarda caso, risaltano in ogni inquadratura. Non è un caso, ovviamente.

Ricordo quel momento come se fosse ora ...

Il tipo della regia si avvicina mentre sto bevendo qualcosa di molto freddo e molto caro. Ha un auricolare nell’orecchio e una faccia da uno-che-chiede-perché-glielo-dicono-dall’alto.
«Scusi, tra poco passiamo con la telecamera. Cosa mettiamo in sovraimpressione? "Fidanzata di..." va bene?»
Alzo lo sguardo.
«No.»
Lui sembra sorpreso, come se gli avessero detto che la gravità oggi non funziona.
«Ah. Allora... “compagna”?»
«Le sembro una comunista?»
Lui ride, non capisce, non deve.
«Guardi... qualcosa dobbiamo scrivere. È la regola.»
Pausa.
Guardo l’obiettivo in lontananza, già pronto a cogliere il mio miglior profilo, e dico:
«Scriva  la sua Tirapiedi. È più dignitoso.»
Silenzio. Il regista dall’altra parte lo chiama nell’auricolare. Lui aspetta che io sorrida, che dica che sto scherzando.
Ma non scherzo.

Arrivano i giornalisti subito dopo, assetati di cliché. Microfoni ovunque. Uno mi chiede:
«Cosa si prova a essere al fianco di un campione così talentuoso?»
Sorrido, allargo le braccia come se presentassi un reality show.
«Al fianco? No, guardi, abitiamo nello stesso residence. È il mio dirimpettaio.»
«Scusi… è il suo—?»
«Dirimpettaio, sì. A volte ci scambiamo il sale. Una volta mi ha chiesto pure l’olio. Dicono sia bravo in pista, io l’ho visto solo sbagliare lavatrice.»

Silenzio.
Sguardi muti.
Qualcuno tossisce.
Lui, B., si gira verso di me con lo sguardo da cane bastonato.
Gli faccio un cenno con la mano e aggiungo:
«Dai, sorridi. Tanto domani c’è Monaco, un podio da conquistare e una nuova fidanzata da inquadrare».


 

A volte per farsi notare e seminare scompiglio non serve brillare.
Basta staccarsi di un millimetro dalla perfezione.
Quel tanto che basta per ricordarmi che sono viva. E non un soprammobile da inquadrare.


 



 

 

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