La cuffia si accese e Kedrik si svegliò. Aprì gli occhi ancora intorpidito, ma sapendo che quello sarebbe stato il giorno della sua Piena Potenza. Sua madre stava scaldando l'infuso per la colazione, lo vedeva in modo chiaro in una regione della mente, come quando si legge un libro o si ricorda, sentendo anche l'odore delle fogliose dolci e la sensazione del vapore che inumidiva le guance. Vedeva sua sorella che si stava svegliando, la vedeva con gli occhi di lei, ma la cuffia minimizzò il segnale perché stava iniziando a svestirsi. Kedrik si alzò in piedi passandosi le mani sulla faccia assonnata. Infilò dei calzoni comodi con la maglia intelligente e andò in bagno a sciacquarsi. La cuffia stava aggiornando il suo cervello con i bollettini e i programmi di quel giorno, giorno del suo 17° compleanno. Usava lavarsi la faccia più per svegliarsi che per pulizia e, come sempre, si abbandonò per qualche secondo in più del necessario al morbido abbraccio dell'asciugamano. Adesso sentiva chiaramente la fame mattutina.

Andò in cucina, assaporando come ogni mattina il tepore del pavimento attraverso i piedi nudi, cosa che, a quanto pare, dava in realtà fastidio a quasi tutti (perché lui poteva sapere cosa pensassero tutti, perché ogni cuffia sapeva che cosa sapevano tutte le altre cuffie).

Salutò sua madre sintonizzandosi con lei, pensando semplicemente a dirle “Ciao”. Avrebbe potuto (e dovuto, se volessimo essere corretti) farlo appena sveglio, ma, per l'egoistica tendenza comune ai ragazzi della sua età di trascurare certi doveri, se ne ricordò solo entrando in cucina. Sua madre, come tutte le madri, sapeva e, come poche meno, tollerava. Si sedette sul gradino della vasca dentro la quale stava la tavola e si servì subito un paio di fette di fogliosa, mentre sua madre versava l'infuso negli assorbitori. Gli passò una mano leggera tra i capelli, come ogni mattina, e come ogni altra mattina Kedrik ne fu infastidito (e lei poteva sentirlo): detestava, come praticamente tutti i ragazzi e le ragazze che poteva conoscere per cuffia, quel contatto fisico che rimbalzava in ridondanza la sensazione del tatto tra le loro menti in un'intimità che da bambino era arrivato più volte a cercare ma che da tempo, ormai, lo metteva a disagio.

Pareva, però, che le madri non potessero vivere senza simili gesti e, sua madre in particolare, avrebbero voluto anche di più.

“Non sei emozionato? – sentì Kedrik nella mente – Succederà alle 6 (di pomeriggio, come se lui non lo ricordasse, eppure lei sapeva che lui non poteva non ricordare) e avremo un nuovo cittadino in casa!”

Sorrideva orgogliosa e serena pensando quelle parole. Se non altro quella serenità pervase anche la cuffia di Kedrik sovrastando, per un momento, la calda dolcezza della fogliosa.

“Ciao a tutti” pensò Aila appena ebbe finito di sistemarsi in bagno. I due risposero insieme.

 

Ora anche mamma si era seduta e sorbiva l'infuso, direttamente in circolo, con la mano sull'assorbitore osmotico. Kedrik sgranocchiò ancora qualche boccone aspettando che l'assorbitore finisse. Con un'occhiata condivise i programmi del giorno con sua sorella: sarebbe stato in educazione fino quasi a pranzo, poi servizio fino alle 5 e mezza. Avrebbe cenato presto per lavorare un quarto di turno in officina. Essendo ancora un educando era obbligato al solo quarto di turno, ma non vedeva l'ora di poter dedicarsi a quelle macchine per un turno intero tutti i giorni. Il suo cervello ormai era in piena attività, gestendo e organizzando le informazioni generali e particolari che dalla cuffia piovevano sulle sinapsi, gettando nell'ordine quel marasma di segnali. Si ficcò in bocca una pasta igienica e, con un pensiero di congedo, iniziò a spargerne il liquido tra i denti con la lingua. Dall'arca davanti all'ingresso di casa prese i paraarti sensibili e gli scarponi a protesi, con la flangia di propulsione in fibra di hunama. Erano quelli di suo padre e, sebbene fossero più delicati di quelli in fibra artificiale, pensò che quel giorno avrebbe dovuto indossarli. A lui avrebbe fatto piacere. Si avviò quindi oltre la porta, verso l'educatorio, a passi di tre metri e mezzo. Attraverso le righe di aggiornamenti e le immagini di programma vedeva sorgere la stella Calda attraverso la bruma delle foreste, oltre le cupole fullereniche della città, sentiva, come da degli auricolari, le voci di chi gli parlava dall'altro lato del pianeta, verso le miniere di ferro, o dall'altro lato della strada battuta, insieme al bisbigliare del vento che scappava dalla sera per rifugiarsi sulle colline e passarvi la giornata. Kedrik ascoltava e rispondeva con pensieri rapidi e precisi, assaporando l'aria e la luce con la serenità di un giovane uomo, con le gambe veloci e il cuore forte. Con la cuffia condivideva quella sensazione con i nodi della rete mentale a lui più vicini, non descrivendola, ma infondendola nei loro pensieri e nei loro animi. Ed essi facevano lo stesso con lui: ansie e speranze, gioie e dolori, si spargevano tra tutte le menti in grado di comprenderle in un totale, personale e sociale equilibrio emotivo. E il risultato era fantastico...

Un risultato che si stendeva davanti ai suoi occhi, mentre lo vedeva con lo sguardo di Blajy, che scendeva a balzi rapidi dalla sua casa sul promontorio, o con quello di Gleer, che risaliva un salto dopo l'altro il sentiero del Lago Basso. Erano i suoi migliori amici e, appena uscivano ogni mattina sotto il cielo, lanciavano in quel continuo flusso ribollente di informazioni, le loro cazzate personali che, forse uniche in questo, lasciavano scappare alle loro bocche delle sonore risate.

 

La casa di Kedrik era ai margini dell’agglomerato posto al di là delle piantagioni rispetto al centro dell’insediamento. Procedeva sulla strada per pedoni affiancata a quella più larga per i mezzi agricoli. L’andirivieni di raccoglitrici autonome gli ronzava tutt’intorno. In quella stagione proseguiva giorno e notte: le macchine instancabili curavano, nutrivano e raccoglievano ad ogni ora. La loro intelligenza, mossa da quella di chi le aveva concepite, rendeva superfluo coltivare ogni specie separatamente come nei tempi antichi in cui, per trarre ogni grammo di fibra dalla terra, si era costretti ad impoverirla sempre più. Ora, nei campi alberati intorno a lui, piante da fiore e da frutto crescevano insieme a cespugli, rampicanti e frumento. L’andirivieni delle stagioni permetteva ad ogni cosa di nutrirsi, crescere e morire per nutrire qualcos’altro. Kedrik conosceva ogni dettaglio di questo processo e di questa tecnica perché era tutto già registrato nella cuffia e, crescendo, aveva imparato a dominare il sapere di cui la sua mente era impregnata. Ma più che la comprensione, a riempirgli di nettare il cuore, era la visione di quel tripudio di vita, colori, odori che si stagliava tra lui e le foreste, verso le montagne. bella come una tempesta di stelle. Ogni poro del suo corpo ne era impregnato.

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